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Lo sguardo sull'oltre nella poesia di Iole Chessa Olivares

Una acuta analisi dell'ultima silloge "Nel finito ...ma finito"

26/09/2016, 18:21

Il portato fondamentale della poetica di Iole Chessa Olivares, così come ampiamente emerge dai testi dell’ultima silloge “Nel finito…Mai finito” sembra essere quel Weltinnenraum, o spazio interiore del mondo, secondo il quale, venuti meno i confini temporali e quelli tra la dimensione del qui e dell’altrove, esiste un Tutto illimitato.

Attorno a questa idea si sviluppa, com’è noto, la poesia di Rilke, al quale l’autrice rimanda non certamente per affinità di soluzioni stilistiche o d’invenzioni iconiche o emblematiche, ma per quell’atteggiamento, appunto, d’interiorizzazione del reale che determina una trasfigurazione delle cose nel momento stesso in cui si fanno oggetto dell’esercizio letterario.
Infatti, nonostante la presenza di luoghi, eventi, persone, i testi dell’autrice non sono quasi mai descrittivi o narrativi, in quanto ogni elemento vi entra già trasformato; così che il lettore è chiamato a riconoscere in ognuno di essi il punto di arrivo di un’indagine meditativa, risolta, di volta in volta, attraverso l’elaborazione di un linguaggio teso a raggiungere il cuore delle cose, talvolta più chiuso, talaltra più disteso e, in qualche caso, perfino spiazzante, soprattutto per l’utilizzo del tutto personale di alcuni lemmi o per invenzione di sintagmi e immagini, quali: sperdimento, paneluce, musicaluce, l’ahimè, grigiori fossili, alleanze randagie, diluvio di partenze, lampi d’epilogo, nel sangue del pensiero; e, ancora, per l’uso inaspettato della grafia maiuscola avente uno scopo affettivo-emotivo o concettuale-simbolico; e l’accostamento di termini ossimorici, quali: sangue-fango, detto del cuore; o misura-dismisura. Tutto ciò rivela una libertà di dire spesso inusitata, qualche volta anche una disinvoltura al limite della stranezza.

Il movimento  ossimorico della vita terrena (nascita-morte; dolore gioia; amore-odio; terra-cielo) oltrepassa la soglia dell’esperienza per approdare alla dimensione dello stupore, del mistero incandescente che regola il Tutto e di cui le cose stesse sono spesso segnali ed annunciazioni, anche se “il seme dell’epifania perfetta/ mai germoglia” (da: “Donna…Con le donne”, pag. 56).
Tanta ansia conoscitiva, di cui si fa carico la poesia, che si rivela metodo di conoscenza delle “possibilità infinite” dell’essere e, dunque,  attitudine all’apertura di varie ipotesi, trova la sua rappresentazione linguistica nella sequela di termini che alludono ad un oltre (“il movimento vero è sempre altrove”, da “Nel sonno e nella veglia”, pag. 18) intuito e indagato anche emozionalmente, e che, tuttavia, rimane sempre inconoscibile, così da generare quello “sperdimento” (di leopardiana memoria) che non solo sigilla il testo d’apertura della silloge (“Sul cancello del tempo”, pag.13), ma che si propaga al suo interno, ritornando, sempre a fine verso, in “Lo spirito dell’altrove” (pag. 44): “di un ‘laggiù’ lontano/ a naso in su/ in devoto sperdimento”. 

Il sentimento, o, se si vuole, l’intuizione dell’oltre, viene declinato in più variazioni lessicali, così che si potrebbe perfino parlare di un’area semantica abbastanza ampia riguardante quasi tutti i testi della silloge a cominciare dal titolo “Nel finito…mai finito” che lo suggerisce attraverso quei puntini di sospensione che, come a Neria De Giovanni, autrice della postfazione, non piacciono nemmeno a me; e però convengo con lei che essi abbiano “tutti una profonda ragion d’essere accompagnando sempre il lettore in una pausa riflessiva accentuata appunto da quella sequenza di puntini-spazi bianchi”.

Lo sguardo sull’oltre introduce nella poesia di Iole Chessa Olivares la dimensione sacrale, che, coincidendo innanzitutto, come recita il titolo del testo a pagina 140,  con “la devozione a esserci”, evidenzia l’ardore empatico, nonostante i molti sconforti,  con cui l’autrice si relaziona con il mondo, per poi estendersi in veri e propri sentimenti di devozione religiosa, come testimoniano i testi della quinta sezione: “Nel limbo che preme”.

In essi prevale un linguaggio mistico, che riecheggia quello dell’Evangelo: le aspirazioni dell’anima, “il dio dell’origine/ di tutto il suo infinito”, il “Cristo morente” che si fa invocazione alla pace tra gli uomini attraverso il simbolo dell’ulivo, definito, con realistica e dolente consapevolezza, un “miraggio” (pag. 101); il dolore della natura, ossia l’“ahimè segreto” (come l’autrice in modo originale lo battezza),  che richiama il gemito della creazione di cui parla San Paolo nella sua Lettera ai Romani; la lode  a “Maria Regina” (pag.116).
In quest’ultimo testo, come scrive il prefatore Plinio Perilli, “Iole ci affascina il cuore, immaginando la Vergine lasciare ogni istante il suo trono per giungerci vicino”: “con noi cammini/ fianco a fianco nella polvere (…) per un verticale crescendo/ aperto al “noi” dell’amore”, che suggerisce un parallelo con i testi della sezione precedente dedicata alla Poesia - a cominciare dal titolo “In sillabe Regina”-  che ne condivide slanci e tremori dello spirito, ma soprattutto quel farsi prossimo alla spirituale concretezza del mondo, che permette all’autrice di umanizzare la Vergine e, al contempo, di sacralizzare la Poesia.

Non è allora del tutto sorprendente che entrambe - l’umanità della Vergine e la deità della Parola-  si compendino nell’esaltazione della donna, intesa come emblema, come quell’Eterno femminino celebrato, prima che da Goethe o Rilke, dalle civiltà orientali: devozione infinita, ianua coeli, simbolica potenza generatrice (Stella maris) e trasformatrice, sintesi del maschio e della femmina in una più autentica Unità d’Amore. Modernissimo emblema del femminino appare, allora, l’astronauta Samantha Cristoforetti, che, nel silenzio dello spazio (“I nomi propri?/ quasi dimenticati/ Nessun cuore di pietra preme l’anima alle spalle”) si trasforma in Paneluce, in Musicaluce, una sorta di nuovissima Beatrice dantesca, che si fa  vera e propria psicopompa dello spazio, simbolo vivente dell’infinito amore della creazione.

Infatti è l’Amore il lemma-chiave dell’intera silloge di Iole Chessa Olivares, quello che permea le metafore del profondo, che fa colloquiare vivi e morti, che alona la memoria del passato, i luoghi della propria biografia (Genova e Roma) e le creature accolte nel corso della vita, di una luminosità vibrante e commossa; che fa dell’altro un angelo a cui bisogna dire sempre di sì, per lievitare verso la perfezione, e, liberandosi del proprio egocentrismo, librarsi in quell’altrove sempre anelato.
Tutto questo, nonostante la consapevolezza dell’irrisolvibile scontro fra bene e male che genera le storture della Storia, su cui l’autrice non evita di soffermarsi: le atrocità di Auschwitz, il conflitto bosniaco, la tragedia di Beslan, i fatti di Nassirya, il terremoto che devastò la città dell’Aquila nel 2009.

Così commenta Perilli la poesia “Ancora una nota”(pag. 69/70): “Solidarizzare in poesia, con la poesia, è un compito due volte arduo, perché approdo etico e gesto stilistico”.
È una definizione, questa di Perilli, che riassume la poetica di Iole Chessa Olivares, fondata sul convincimento della necessità della poesia come testimonianza, canto della sacrale bellezza del mondo, anelito alla perfezione del cuore attraverso il recupero della fede e della speranza (virtù anche, ma non esclusivamente, teologali), ma anche senso profondo dell’euritmica bellezza delle parole.

Franca Alaimo
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