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LA POESIA DI CORRADO CALABRO' ALLA BIBLIOTECA DELLA CAMERA- INTERVISTA DI ANNA MANNA
Organizzato dall'Associazione ex.Parlamentari e dall'Associazione internazionale dei critici letterari, la presentazione del libro "L'illimite" sulla poesia di Calabrò
16/02/2015, 11:05La biblioteca della Camera dei Deputati, sala del Refettorio, il 16 marzo alle ore 11 ospiterà la manifestazione aperta dal saluto del preside della facoltà di Lettere della Sapienza, Roberto Nicolai. Parleranno dell'opera di Corrado Calabrò l'on.Gerardo Bianco e la prof.ssa Neria De Giovanni. Letture a cura di Maria Letizia Gorga.
L'occasione di questo evento è l'uscita del volume "L'illimite- Incontro con Corrado Calabrò" a cura di Anna Manna Clementi titolare del progetto "I contemporanei in biblioteca", Sapenza-Università di Roma.
Anna Manna Clementi ha rivolto alcune domande al poeta Corrado Calabrò.
1. L’amore è un fattore dirompente della tua poesia?
L’amore è forse la principale porta della poesia.
L’amore rompe la scorza del nostro ego, ci spinge a uscire dall’incomunicabilità e, al tempo stesso, nel momento cioè in cui avvertiamo un’immagine nuova di bellezza – un’immagine che vediamo noi soli-, ci spinge ad usare un’espressione inedita, tutta nostra, forse indicibile, per esprimerla. Ci spinge, quindi, alla creatività. E’ talmente forte la spinta dell’amore che, dopo aver cercato di fare di noi carne e anima dell’altro-da-sé e dell’altro carne e anima nostra, ci induce all’oltre da entrambi noi stessi.
2. Che funzione può avere oggi la poesia in un mondo in cui si parla tanto?
La logorrea dilagante porta alla superficialità e alla convenzionalità nella comunicazione di massa. In politica la facilità di parola premia la faciloneria. Si parla “intorno” ai problemi, non si entra mai nel merito. Si rifugge da ogni approfondimento, si omette persino di verificare la verità delle affermazioni fatte all’impronta, se non con improntitudine.
La televisione ha abituato i telespettatori all’uso fluente della lingua italiana; ma li dissuade dal pensare, dal riflettere, dal cercare risposte che non siano semplice marmellata verbale.
Il bisogno della poesia nasce dalla scontentezza della banalità, dell’ovvietà dell’espressione. La poesia tende a dire qualcosa che è al di là del convenzionale: è un’operazione di chirurgia estetica che asporta la cateratta mentale per farci vedere quello che guardavamo con gli occhi opacizzati dall’abitudine senza percepirlo.
3. La ricerca poetica, l’ansia dell’altrove, è dunque un percorso dalla terra al cielo, dall’immanente al trascendente? L’ansia religiosa è anche l’ansia del poeta?
In poesia, come nella mistica religiosa, alla scala di Jacob si tende ad aggiungere sempre nuovi scalini in funzione del desiderio di salire. Un desiderio inesauribile, come quello che spinge a scalare l’Himalaya, il K2, persino senza bombole d’ossigeno. “Su / su / ancora un colpo d’ala/ fin là dove l’ossigeno ci manca”, dice una mia poesia.
Lo stesso desiderio che spinge ai voli interplanetari. Ma è sconosciuta, non percepita nella sua fondamentalità, la stessa realtà che ci circonda e permea nel nostro quotidiano, la realtà di cui siamo fatti. Noi tocchiamo solidi e liquidi, vediamo colori, sentiamo suoni, odori, sapori: in realtà esistono soltanto vibrazioni, onde con diversa frequenza e lunghezza, particelle con funzioni d’onda. Quella dei nostri sensi è una percezione olografica di un’ultrarealtà che ci sfugge.
4. Serve di più all’umanità la visione piatta, olografica, della realtà o piuttosto il miraggio?
Per ciascuno di noi il mondo “esterno” esiste solo nella misura in cui il nostro cervello lo percepisce. Il nostro cervello: questa piccola, immensa cosa, che ha più connessione tra i neuroni di quante stelle ci siano nel firmamento.
Per camminare l’uomo deve guardare per terra. Ma l’uomo non cammina a quattro zampe. E’ una creatura eretta, non un animaluccio a due zampe. E’ fatto per alzare gli occhi al cielo stellato. Può rinunciare al tentativo inesaurito di cercare di comprendere, anche solo con gli occhi della mente, l’universo di cui noi siamo solo una parte infinitesima, ma inspiegabilmente preordinata a intendere il tutto?
5. La poesia, la cultura può aiutare i popoli alla comprensione reciproca?
Assistiamo a un’incredibile regresso culturale nelle fazioni estremiste dell’Islam. Se si pensa (è anche questa la funzione della cultura) che cos’è stata la civiltà islamica di Al Rashid, Avicenna, Averroè, sbalordisce che i talebani vogliano che si studi solo il Corano; meglio ancora se lo si impara a memoria nelle madrase restando analfabeti.
Boko Haram, la sigla di uno dei più efferati movimenti terroristici, significa “la cultura occidentale è peccato”. In nome di questo assunto da trogloditi, loro rapiscono e violentano le studentesse, sgozzano non solo cristiani ma anche ragazzi musulmani che studiano chimica, fisica, geometria.
In realtà il loro è un rifiuto totalizzante di qualsiasi apprendimento che non sia quello mnemonico del Corano e quello dell’uso delle armi.
Conoscere la storia, la cultura propria e quella degli altri popoli porta a intendere la matrice comune dell’umanità, per la quale la poesia dei lirici e dei tragici greci, le statue greco-romane, le opere dei grandi storici dell’antichità, le scoperte e le ricerche scientifiche dei nostri tempi sono tutte contemporanee, sono tutte nostre, sono per noi, sono di ogni uomo d’oggi che ne riscopra la bellezza e la verità, a qualsiasi razza o Stato egli appartenga, qualsiasi convinzione religiosa egli professi o meno.
“Homo sum, nihil humani a me alienum esse puto”, scriveva Seneca. Ma homo sapiens, non idiota ebbro di delirio di onnipotenza perché ha un fucile mitragliatore in mano, un idiota che crede il mondo sia cominciato e finisca con lui.