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L'ETNIA SARDA E CATALANA DI ELIO VITTORINI E CARLO LEVI

09/10/2016, 14:28
Pierfranco Bruni

La Sardegna sul piano dell’interpretazione antropologica resta,certamente,uno dei percorsi in cui la civiltà letteraria si manifesta attraverso dei processi che sono di natura etnica. Sappiamo benissimo che la difesa delle lingue minoritarie si fortifica grazie alla conoscenza e all’approfondimento di una dimensione della letteratura che ha come elemento dominante il rapporto con le identità e in modo particolare con le radici che sono le vere e proprie appartenenze di una comunità e di un popolo. Le etnie sarde hanno matrici storiche, certamente, diversificate da contesti territoriali ad altri ma sono ben rappresentate da un dato dominante che è quello della mediterraneità.

    Da questo punto di vista la Sardegna dalle pieghe fenici è anche la Sardegna che ha nel proprio interno delle “isole” straordinarie  come quella catalana di Alghero. Ci sono stati scrittori viaggiatori che hanno ben definito l’asse storico letterario e geografico di questa terra. Mi riferisco in modo particolare a due scrittori che sardi non sono ma che hanno tratteggiato i processi di civiltà di cui è ricca la Sardegna.

    Mi riferisco ad Elio Vittorini (Siracusa, 1908 – Milano 1969) con il suo Sardegna come infanzia  che risale al 1932 (allora con il titolo di Viaggio in Sardegna e poi successivamente stampato nel 1952 col titolo prima citato) grazie al quale si può leggere una geografia che non è solo improntata sulla realtà dei luoghi ma sono rintracciabili quei segni tangibili di una poetica che porta in essere il vissuto di una metafora esistenziale quale è appunto l’isola.

    D’altronde Elio Vittorini proveniva da un’altra isola qual è la Sicilia ed è l’autore di quel magico ritratto dal nome Conversazione in Sicilia. L’altro scrittore che si è tuffato nella linea di luce e di ombra di una Sardegna indefinibile dai colori etnici e storici è Carlo Levi con il suo Tutto il miele è finito. Un libro-viaggio che risale al 1964 nel quale ci sono tratteggi mitici che hanno una profonda formazione in una memoria le cui dimensioni ondeggiano tra il lirismo e l’onirico. Anche Carlo Levi,nonostante tutto, pur provenendo dall’ambiente torinese aveva conosciuto gli stili e i modelli di vita del sud. Non ha scritto soltanto il Cristo si è fermato ad Eboli ma anche altri testi come Tre giornate in Sicilia.

    La Sicilia e la Sardegna sono il portato di una cultura che trova proprio nel Mediterraneo un suo bacino di modelli storici bene definiti. Tra descrizioni e immagini recuperano entrambi una eredità che è fatta certamente di territorio ma anche di lunghi e incisivi scavi in una memoria che mai può essere dimenticata perché costituisce il tratto di unione tra la tradizione e il tempo e ciò che esplode sono le immagini vivificanti del paesaggio.

    La cultura catalana e sarda sono un incidere nella civiltà del non dimenticare e il racconto che Vittorini e Levi fanno sembra un incastro nel quale gli stessi tagli del tempo sono una referenza del passo dell’esistenza.

    In Vittorini le descrizioni sono un vero e proprio recupero di memoria ma parimenti restano lo specchio dentro il quale si riflette la nostalgia per una civiltà.

    Scrivendo di Alghero si sottolinea: “ Ecco,ancora una volta ci siamo fermati in rada. Abbastanza al coperto dal maestrale, per la manovra di carico. Laggiù, chiusa in una piega della costa oscura coi suoi campanili dentati, Alghero. Sembra di pietra pomice. E a sapere che vi parlano catalano, mi diventa più oscura nell’imbrunire nuvoloso d’una Spagna, anzi d’una Spagna d’America.

    Ci abborda un barcone furibondo col la sua vela che non fa in tempo a calare. Sgoverna. E bisogna che viri perché si affianchi allo scafo. Porta panieri di aragoste vive che disperatamente masticano l’alghe in cui stanno. Ma si ricarica di cassoni sconquassati che lasciano intravedere fagotti di carta blu;pasta palermitana, senza dubbio.

    “E presto si fa notte.

     “Alghero s’accende di lumi azzurrognoli che l’impressione del vento fa palpitare ai nostri occhi. Dal barcone salgono le voci dei caricatori al buio, poi si distaccano, sfumano, invisibilmente in cammino sotto il ciondolio di un fanale che il vento si porta.

    “Il piroscafo, sospinto addosso alla negra costa, non sa restare più fermo. Suonano rintocchi alla campana di prua, si riparte;per salvarci dal baccheggio che scaglia fuori dai parapetti, ci rifugiamo in un salottino e qui a poco a poco nel caldo delle poltrone sentiamo la pioggia battere ai vetri”.

    Un immenso torpore in cui la nostalgia e la malinconia sono un vero e proprio dettato poetico ma la geografia del luogo c’è e con essa insistono quei segmenti che hanno una valenza etnica in quanto i  tasselli di un mosaico antropologico si vivono in quel rapporto che pone la cultura algherese a confronto  con la Spagna. La parlata catalana viene colta nella sua sostanza ed ecco dunque come il linguaggio, la storia e la letteratura sono un unicum.

    Così in Carlo Levi dove l’elemento antropologico forse è quello più accentuato e immediatamente vi cattura una sensazione. Infatti, Levi, nel testo dedicato alla Sardegna, cesella: “ Qui, nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare. Nella presenza dell’arcaico ogni conoscenza è riconoscenza”.

    Ci sono elementi in Levi che hanno una valenza mitica e lo sviluppo di tale valenza si manifesta in una interpretazione che è naturalmente antropologica. Il senso del remoto è come se chiamasse in causa quell’arcaicità che Cesare Pavese ha riconosciuto vivendo per alcuni mesi nella terra grecanica di Brancaleone in Calabria. Ma in Levi come già in Vittorini non manca il raccordo tra il reale geografico e il geografico poetico.

    In una immagine dedicata ad Orune si legge: “E’ un paese antico e chiuso, dove permangono, forse più che in ogni altro, gli usi, le abitudini, i costumi, le tradizioni popolari più lontane, e l’intelligenza e il valore di una vita tanto più energica quanto più limitata, piena di capacità espressiva,di potenza individuale e di solitudine. Il vento soffiava nelle stradette vuote, i monti curvavano i dorsi neri sotto il cielo notturno. Dal  municipio uscì una donna dai capelli grigi avvolta in uno scialle da contadina: era il sindaco di Orune”.

    Il territorio è una vera e propria rappresentazione in cui luoghi e figure si intrecciano e in questo intrecciarsi c’è la scoperta della tradizione che diventa la rivisitazione del mito. C’è un insistere in Levi nel raccontare i contorni del paese, paesi che hanno la loro lingua, la loro storia e il loro costume ma hanno soprattutto una loro forma che si esprime in alcuni “disegni” simbolici. Ritorniamo comunque al concetto indelebile di Mediterraneo.

    In quel concetto che è fatto come si diceva di una geografia del reale tanto da far dire a Levi, continuando nel suo viaggio: “Tra la Nurra e l’Anglona, oltre Sennori e Sorso, la strada scende verso il mare sempre più vicino, nella campagna mediterraneo di ulivi e di macchie, e lo raggiunge, e corre sulla strada elevata, verde e azzurro…”.

    Ci sono i “paesi del silenzio” e “la pietra contiene ogni aspetto di una esistenza differenziata”: questa è la Sardegna di Levi con i “crepuscoli nelle sera” e i “declivi di boschi mediterranei, dove si mescolano le diverse essenze e i diversi verdi dei pini, degli ulivi e dei fichi d’India…”.

    Questa cultura sarda con la sua parlata nelle fette catalane di Alghero sono il viatico nel quale non esiste solo il tempo passato ma esiste un presente che è fatto dei luoghi della memoria che continuano a vivere in una costante metafora come la metafora di Vittorini del definire emblematicamente la “Sardegna come infanzia”.

    E tutto questo in una chiave di lettura in cui i codici culturali prendono consistenza in una dimensione che è etnica perché la Sardegna stessa custodisce quell’etnos in cui si conservano i tessuti e le civiltà di popoli che vi hanno abitato o che soltanto vi sono passati. Stanziamenti o passaggi comunicano segni indelebili. E se la cultura catalana rimanda a quella cultura che ha come confronto Barcellona tutto l’etnos della Sardegna è un espressione, pur nelle diverse sfaccettature, di un destino che ha come principio dominante il mare, la terra, il mondo barbaricino, la tradizione, i canti e le danze, il recitativo poetico di una appartenenza profondamente mediterranea.

    Sia Elio Vittorini che Carlo Levi raccontando e viaggiando in questa isola non hanno fatto altro che restituirci un paesaggio mediterraneo nel quale le emozioni le sensazioni i sogni e le passioni contano più della realà. Una realtà che sfugge ma che non si perde. Un etnos che si tramanda nella sua oralità di linguaggio e in un sistema di cultura in cui l’uomo ha sempre vissuto le sue storie di terra e di mare nelle lontananze che tracciano, senza alcun dubbio, la contemporaneità.

    Ecco perché sia Levi che Vittorini con il loro viaggio in Sardegna hanno caratterizzato una identità nella quale è viva una fisionomia antropologica dentro la quale i processi esistenziali restano processi di civiltà.

    Il rapporto etnia e letteratura si consolida e catalani e sardi preservano un humus fatto di antiche rimembranze ma anche di precise “desinenze” mediterranee.

Pierfranco Bruni
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