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CRISTINA CAMPO, LA SPERANZA E LA PREGHIERA
A quarant'anni dalla morte
20/03/2017, 19:02La speranza e la preghiera sono nella vita. Sono la vita. “Se ancora due uomini incontrandosi si inchinano l'uno all'altro, la civiltà è salva”. La speranza, la preghiera, le voci del silenzio sono i tracciati dentro i percorsi di una esistenza fatta di poesia, di mistero, di simboli. Linguaggi che danno senso a un “vocabolario” di sentimenti, in cui il tempo è primordiale viaggio di tensioni tra destini che si intrecciano o si incontrano. La poesia è un’anima di vocazioni indefinibili. La poesia di Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, (Bologna, 1923 – 1977) è sempre un travaglio dove il “passo d’addio” è un navigare lungo le meridiane della attesa. Anima religiosa, religiosa anima che non dimentica il passo di San Paolo nel tremore di una religiosità in cui non mancano le nostalgie e il tempo, sempre il tempo, è un incastro infinito nel gioco del vivere quotidiano.
Il tema degli addii è una metafora fondamentale nella poesia di Cristina Campo. In essa ci sono le tempeste e le inquietudini ma anche i riposi. E’ nel 1956 che pubblica il suo primo testo di versi dal titolo, appunto, “Passo d’addio”. Immagini danzanti sul davanzale delle parole che non raccontano ma offrono specchi e recita. Gli echi e i suoni del Mediterraneo sono processi linguistici e tensioni esistenziali.
Il Mediterraneo come poesia e come cultura. Come nei versi della poesia dal titolo: “Diario bizantino”: “Due mondi – e io vengo dall’altro”. Perché “La soglia, qui, non è tra mondo e mondo/né tra anima e corpo…”. Questo viaggio bizantino mette a confronto epoche e mondi. Storie e destini in un unico viaggio. Il diario accentua un orizzonte nel quale le proiezioni delle stesse immagini sono tasselli di un mosaico che ha fatto di spicci di ricordi. E i ricordi sono ansie, sentieri incantati e deserti. La religiosità e devozione e le voci sono echi che giungono da lontano.
Le distanze misurano sempre le solitudini perché sono le solitudine che segnano le rughe e incidono solchi. Ci sono solchi nella consapevolezza degli addii e gli addii sono comprensione delle distanze. “Devota come ramo/curvato da molte nevi/allegra come falò/per colline d’oblio,//su acutissime làmine/in bianca maglia d’ortiche,/ti insegnerò, mia anima,/questo passo d’addio…”.
Dunque, un passo di addio. Una parola che è sempre una preghiera. Il 24 luglio del 1958 Cristina Campo osserva: “…io non ho,davvero, che la poesia come preghiera – ma posso offrirla?”. Un interrogativo che non smette di vivere nelle dimensioni dell’essere. La sua poesia è un essere che ha parole di luna e di fuoco. Tutto avviene nella memoria della parola stessa perché è qui che la letteratura è un destino mistico e la mistica è un vagare nella letteratura. Il sacro si nutre di liturgia ma anche di miti. Le sue pagine sono ricche di dimensioni metafisiche nelle quali la metafora è un incessante desiderio di penetrare la realtà non con gli strumenti del rappresentare o del definire ma con lo sguardo della contemplazione. E tutto si nutre di rito. Il rito è una antica liturgia nel cammino dell’uomo.
“Il rito è per eccellenza questa esperienza di morte – rigenerazione attraverso la bellezza… I riti) sono… io credo, i veri modelli, gli archetipi della poesia, che è figlia della liturgia…”, così scrive Cristina Campo il 16 aprile del 1972 sul “Tempo”. Siamo costantemente alla preghiera. La parola che si fa preghiera è un canto di recita. Cristina Campo si è sempre interrogata in quel vivere di “stelle spente”. Le “Lettere a Mita” del 1999, chiaramente postume come gran parte dei suoi scritti, sostengono un cantico di esistenze e di passione. La passione redentrice nella spiritualità della memoria che non si abbandona solo al travaglio di un inquieto esistere ma si lascia catturare da quel paesaggio mai fisico perché è sempre mitico. Così si riscontra nelle pagine di testi come “La tigre assenza” o “Gli imperdonabili”, o “Sotto falso nome”.
Il ricercare la perfezione è nel cavo del cuore di un tempo indissolubile. Il sentimento della cristianità che si riscontra in Cristina Campo è un travolgere l’indefinibilità del tutto perché il tutto resta nell’eternità della parola rivelazione. E Cristina Campo ha fatto della poesia il filo che unisce il senso della rivelazione alla parola rivelata. Si ascolta: “…/Ti cercherò per questa terra che trema/lungo i ponti che appena ci sorreggono ormai/sotto i meli profusi, le viti in fiamme./Volevo andarmene sola al Monte Athos/dicevo: restano pagine come torri/negli alti covi difesi da un rintocco.//…/Ma ora non sei più là, sei tra le gra“voglio destarmi sulla via di Damasco”. ndi ali incerte/trapassate dal vento, negli aeroporti di luce.//…/nei denti disperati degli amanti che non disserta/più il dolce fiotto, la vita d’oro del figlio…”.
Una poesia da “Poesie sparse” che porta un titolo emblematico. Appunto: “Emmaus”. Non siamo oltre il tempo ma dentro il tempo e la recita della vita si svolge nel teatro immenso che offre scenari impareggiabili. E’ la voce che giunge dal deserto nel vento che porta misericordia e meraviglia: Questa via è l’urlo della salvezza o il silenzio che ci fa capire i messaggi della profezia. Cristina Campo, in fondo, è il poeta della profezia e della preghiera. Come tutti i grandi poeti che sono sulla strada dell’ontologia vive di vissuto perché il vissuto è oltre il presente stesso perché sigilla l’istante al tempo.
Un sigillo che ci riporta al Cantico biblico in un paesaggio di ombre che tentano di penetrare la luce ma è la luce che rende luminosa l’ombra senza mascherarla nel riflesso ma rendendola propria di luce viva. Ed è questo l’andare verso il vero cammino: “(Ora tutta la vita è nel mio sguardo,/stella su te, sul mondo che il tuo passo rinchiude)”. Non solo una metafora ma quella metafisica dell’anima che è singolare ricchezza testamentaria. La poesia di Cristina Campo è il testamento di un’anima. Quei segni sono i simboli di un camminamento che si fa vita e favola tra i passi della nostalgia. La grandezza di Cristina Campo: “Io non prego mai per i morti, io prego i morti. L'infinita sapienza e clemenza dei loro volti – come si può pensare che abbiano ancora bisogno di noi? – Ad ogni amico che se ne va io racconto di un amico che resta; a quella infinita cortesia senza rughe ricordo un volto di quaggiù, torturato, oscillante”.