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DIEGO FABBRI A 35 ANNI DALLA MORTE. UN VIAGGIO NELLA CRISTIANITA'
il 14 agosto 1980 si spegneva una delle voci più alte della letteratura italiana e della spiritualità
14/08/2015, 12:15Lo scrittore Diego Fabbri moriva il 14 agosto del 1980. Il suo viaggio letterario è stato un viaggio nel mondo della cristianità tra la ricerca di una redenzione e il bisogno di assolvere i peccati che hanno contraddistinto l’uomo nella storia. La storia della memoria come antitesi della storia come cronaca. Una storia dai significati cristiani. E proprio per questo il suo percorso letterario non è stato altro che una ricerca volta alla centralità dell’uomo. Il teatro dentro il teatro che si fa vita. Diego Fabbri era nato a Forlì il 2 luglio 1911. Il suo primo testo teatrale risale al 1931 dal titolo: I fiori del dolore.
Tra il 1940 e il 1950 si contano: Orbite, Paludi, Il nodo, Il prato, La libreria del sole, Inquisizione, Trio, Contemplazioni, Rancore. Gli anni successivi vedranno la luce: Il seduttore, Divertimento, Processo di famiglia, Processo a Gesù, Veglia d’armi e poi i lavori su Dostoevskij.
Al 1963 appartiene: A tavola non si parla d’amore. Lavora su un testo di De Roberto. Al 1974 risale il testo su Cesare Pavese. Al 1980 appartiene invece: Al Dio ignoto. Ma tutto il teatro di Fabbri è stato pubblicato in due volumi, Tutto il teatro (nel quale c’è anche il testo postumo dal titolo: Incontro al parco delle Terme), nel 1984.
Tre concetti fondamentali hanno caratterizzato, tra i numerosi sviluppi tematici che i suoi scritti hanno posto all’attenzione, la sua funzione di scrittore e di uomo: la metafora del processo, la consapevolezza dell’ambiguità, la rilettura costante e non statica del concetto di cristiano. La metafora del processo ha avuto come riferimento sia una rivelazione storica (che è chiaramente da considerarsi essenzialmente come una rivoluzione che poneva al centro il cuore dell’uomo) che è, appunto, la figura di Gesù sia un personaggio che ha lasciato un segno particolare nella letteratura: mi riferisco allo scrittore Cesare Pavese sul quale Fabbri ha lavorato portando sulla scena Il vizio assurdo. Una figura che ha, sostanzialmente, richiami ontologici da una parte e un dramma esistenziale tutto giocato tra la vita e la morte in un incrocio tra realtà e letteratura.
Il Pavese di Fabbri è un Pavese “strappato” agli schemi dell’ideologia, alle disperazioni di un tempo incomunicabile, ad una morte che non conosce rivelazione. E’ un Pavese che ritrova la sua dimensione esistenziale e religiosa pur nella tragedia che lo condurrà al suicidio. Era il Pavese che chiedeva amore. Chiedeva di uscire fuori dalle solitudini. Si domandava. E non c’era un Pavese estremamente razionalista. Pavese era in quel bisogno di amore che si esprimeva nei suoi scritti. Ebbene, Fabbri ha saputo cogliere il suo sentiero amoroso in un intreccio di incanto e disincanto.
La consapevolezza dell’ambiguità, nella vita e nel teatro, ovvero nell’esistere e nel vivere la letteratura, è un risvolto che mette in mostra non soltanto delle scene ma un retroscena dalla portata oggettiva e soggettiva. Diego fabbri ha scritto su questo tema un libro chiave dal titolo proprio: Ambiguità cristiana che è del 1954 (già nel 1949 aveva pubblicato il saggio Cristo tradito), nel quale si coglie l’intervento dello scrittore mutuato dalla coscientizzazione di un impegno non formale che coniuga testimonianza, come vissuto, e operatività. E’ una questione epocale che vive dentro questa civiltà dell’uomo.
Scrive Fabbri: “Non siamo tanto ambigui noi, individui, quanto è ambigua la condizione di vita in cui ci troviamo necessariamente a vivere, per cui noi, per il fatto stesso di dovere, in un modo o nell’altro, operare, diventiamo, comunque, e spesso involontariamente, le componenti di un risultato ambiguo./ Il male di questi anni mi pare non sia tanto un ‘ideale sbagliato’, quanto una condizione sbagliata, ambigua”. L’ambiguità è nell’esistere. Nel concetto di cristiano ci sta indubbiamente una riflessione sulla storia. Il cristiano deve fare la storia e non soltanto intervenire nella storia.
In un articolo dal titolo “morire per risorgere” riferendosi alla figura di San Paolo scriverà: “Il messaggero della resurrezione è Paolo di Tarso; si mette instancabilmente a girare per il mondo annunciando, come dominato da uno slogan: ‘Se Gesù Cristo non fosse risorto la nostra fede sarebbe vana’. (…) Chi mi ha tenuto saldamente per mano lungo questo cammino è stato Paolo di Tarso che da allora è diventato l’amico della mia maturità”. La letteratura attraversa queste linee e crea, per il cristiano, un cerchio che diventa la lettura dell’esistere.
“Anziché fare la storia i cristiani si sono più spesso accontentati di intervenire nella storia: il che è, evidentemente, un’altra cosa. Poiché intervenire significa, nel più ottimistico dei casi, subire da altri l’impostazione dei problemi e talvolta perfino le soluzioni. Non abbiamo, noi, i cristiani, suscitato i nostri problemi e affermato, con un nostro metodo, le nostre soluzioni. Ci siamo insomma contentati di essere dei restauratori anziché dei costruttori dalle fondamenta (e vedremo che è stato per timore, anzi per paura; doppia paura: paura Cristo e paura dell’uomo)./ Il nostro è sembrato troppo spesso un intervento un po’ furbesco dei timidi, se non dei pavidi, nelle cose già avviate”.
Il bisogno di rivelazione ma anche di redenzione accompagnano costantemente la vita di Fabbri. Si pensi a come affrontò il suo lavoro su Massimiliano Kolbe, il francescano polacco morto a Aushwitz il 14 agosto del 1944. Kolbe chiede di morire al posto di Francesco Gajowniczek. Kolbe sceglie di morire volontariamente per salvare un padre di famiglia. E’ su questo che si intreccia l’avventura drammatica di Fabbri, il quale senza alcuna esitazione dirà: “Per l’atroce aguzzino del lager fu una semplice sostituzione di numeri… Tutto quello che è eroico è sempre motivo di dramma e di tragedia…”.
In fondo in Fabbri, pur nella dialettica dell’ambiguo e del cristano, sembra costantemente ripetersi ciò che Maddalena pronuncerà in Processo a Gesù: “Non capite che il vero miracolo era quello dell’amore! Non capite nemmeno voi – come non capirono loro – che quel che contava per Gesù era l’amore, e i miracoli che erano? Soltanto gesti e parole e atti d’amore!”.
La storia in Fabbri viene superata dai sentieri della provvidenza. La salvezza che richiama contemplazione. Il bisogno di pregare ai piedi della Croce. Ma nel suo viaggio non ci sono i segni del mito. Non c’è mito. Ma resta la preghiera. Una preghiera che si intreccia nei giorni del tempo. Una preghiera che attraversa il sentimento dell’attesa e si avvia verso il bisogno di rivelazione.
Così nel teatro. Così nel suo impegno umano. Un testimone coraggioso in un tempo di mere consolazioni. Quel teatro nel teatro è la vita nella dimensione dell’esistere. Un indefinito ma anche indefinibile viaggio non alla ricerca dell’uomo ma un viaggio nel cuore dell’uomo. Fabbri ha raccontato la cristianità in un mondo in cui gli uomini si lasciano affascinare dai deserti. E quella cristianità che ha vissuto mettendola in scena è il Dio che ritorna pur nella metafora del “Dio ignoto”.