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IL FATALISMO NE "L'ALEPH" DI JORGE LUIS BORGES

39 anni fa moriva Jorge Luis Borges (14 giugno 1986)

14/06/2021, 16:12

Il mondo si divide in due grandi categorie: chi crede nel destino, e chi mente. Persino i più accaniti sostenitori del libero arbitrio cedono, di tanto in tanto, alle lusinghe della sorte: “doveva andare così”, mormorano con rassegnazione davanti alle sconfitte, scrollandosi di dosso ogni responsabilità.
Ma è davvero questo, il fato? Una trama già scritta cui sottostanno uomini-attori, ignare vittime di una divinità-regista? Un meccanismo inviolabile che opera, indisturbato, dalla notte dei tempi? Un fiume che scorre tenace e inarrestabile verso la vastità del mare? O riguarda, piuttosto, la personalità di ciascuno, il dispiegarsi dell’identità individuale, il suo prendere forma nel corso della vita? Non è forse realizzarsi per ciò che si è già, in partenza, sviluppare appieno la propria natura, rispondere all’appello con prontezza e devozione? Ecco che Jorge Luis Borges, il labirintico narratore dell’America Latina, restituisce nei racconti de L’Aleph (1949) una visione del destino a tutto tondo, vertiginosa e complessa nella sua verità.

 

Il destino è un cammello cieco che traghetta gli uomini nella nudità del deserto, è forte e stupido, innocente e inumano (La ricerca di Averroè). Eppure, è l’uomo a guidarlo, l’unico ad averne il controllo, confuso e, al tempo stesso, profondamente consapevole della via da percorrere. Così accade ne La storia del guerriero e della prigioniera, in cui la figura del barbaro che abbraccia la causa di Ravenna e quella della donna europea che sceglie il deserto, sono trascinate da un impulso segreto, [...] più profondo della ragione.

Nessun destino è migliore d’un altro, ma [...] ogni uomo deve compiere quello che porta in sé (Biografia di Tadeo Isidoro Cruz): ecco che Emma Zunz, mentre ripone nel cassetto l’ultima lettera del padre assassinato, è già quella che sarebbe stata l’indomani, nell’ordire la sua tragica vendetta. E se il destino lo si può cambiare è per sua stessa concessione, che sfuma in una fragile illusione, come ne L’altra morte, in cui Damián può riscattarsi dalla passata codardia in una nuova, delirante battaglia: l’attese con oscura speranza, e il destino finalmente gliela portò, nell’ora della morte.
Qualunque destino, per lungo o complicato che sia, consta in realtà d’un solo momento, [...] quello in cui l’uomo sa sempre chi è: per questo Teodolina Villar tenta continue metamorfosi, come per sfuggire a se stessa (Lo Zahir). Il più delle volte, tuttavia, occorre rassegnarsi, come ne La casa di Asterione, il Minotauro della mitologia greca dall’inedita mitezza che aspetta, speranzoso, la fine della prigionia; si veda, inoltre, la testimonianza di un nazista tedesco che, dalla propria cella, riflette sulla dichiarata colpevolezza: tutti i fatti che possono accadere a un uomo, dall’istante della sua nascita a quello della sua morte, sono stati preordinati per lui. (Deutsches Requiem).
Homo faber ipsius fortunae? Forse. Ma l’uomo è la propria sorte, la incarna sin dalla nascita: egli si confonde, gradatamente, con la forma del suo destino […], è, alla lunga, ciò che lo determina (La scrittura del dio)

ELSA BALDINU
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