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LA BELLEZZA COLLATERALE DI ROBISON CRUSOE: 290 ANNI DALLA MORTE DI DANIEL DEFOE

24/04/2021, 17:39

30 settembre 1659. Io, povero miserabile Robinson Crusoe, naufragato durante una spaventosa tempesta, sono stato gettato dall’impeto delle onde a terra in un’orribile e sfortunata isola che ho chiamato Isola della disperazione. Gli altri miei compagni sono annegati, io stesso sono mezzo morto. Ho trascorso il resto della giornata a disperarmi, perché non avevo né cibo, né casa, né panni per cambiarmi, né luogo dove rifugiarmi. Immerso nella disperazione, non vedevo che morte intorno a me: o divorato dalle fiere, o trucidato dai selvaggi, o morto di fame. Al sopraggiungere della notte ho dormito su un albero, temendo di essere sorpreso da esseri malvagi, selvaggi o belve; ma ho dormito profondamente, nonostante piovesse”.

È quanto riporta sul proprio diario il giovane inglese Robinson Crusoe a qualche tempo dal naufragio, avendo raggiunto quel poco di felicità che gli consente di riflettere sulla propria nuova e singolare condizione. Padre inconsapevole di una ricca prole di sopravvissuti che affollerà i grandi schermi della modernità, egli è solo agli inizi di quel tortuoso e interminabile percorso che lo consegnerà alla Storia.
Quel poco di felicità che, col tempo, avrà modo di maturare, non è soltanto la manifestazione di un sollievo passeggero; non è, per così dire, la quiete dopo la tempesta, né l’abitudine di chi si arrende, poco a poco, all’inevitabile. Non si tratta neppure della fede nella Provvidenza, cui, tuttavia, Robinson impara ad affidarsi nell’ottica del ‘poteva andare peggio’. Chi lo ha salvato dalla morte potrebbe, un giorno, liberarlo dalla prigionia dell’isola: di fatto, vi resterà per ventotto anni, due mesi e diciannove giorni.

 

Sebbene tali aspetti siano in parte presenti, e si intreccino in una complessa rete emotiva, a prevalere sembra piuttosto la cosiddetta bellezza collaterale: la percezione che, accanto al proprio dolore, scorra, parallela, la felicità e che, con un po’ di slancio, la si possa sfiorare. Distogliere lo sguardo da sé, anche se a fatica, e alzarlo sul mondo può aprire nuovi, sorprendenti scenari: mosso dall’istinto di sopravvivenza, Crusoe è pressoché costretto a guardarsi intorno così da accantonare, seppur momentaneamente, la sofferenza.

L’oasi caraibica in cui è confinato gli appare all’improvviso nella sua vera essenza e vi riscopre il valore delle piccole cose: il gusto dell’uva essiccata al sole, il pascolo di un gregge, l’affettuosa compagnia di un pappagallo; la stagionalità della semina, le correnti marine, le calde pelli di un animale in cui avvolgersi la sera. Ecco che nel suo cuore si insinua, inaspettata, la gratitudine a cui, più avanti – finalmente rimpatriato –, seguirà una profonda nostalgia di casa.
La bellezza collaterale muove, sì, dal nonostante come estremo tentativo di rinascita; ma è più prossima alla consapevolezza che tutto è inspiegabilmente interconnesso e che attorno al male gravita il bene. Si pensi, in conclusione, all’antica filosofia cinese cui appartiene la dialettica tra yin e yang: oscurità e luce sono due parti della stessa collina.

Se ci si trova all’ombra, niente paura: persino dalle nubi più fitte filtra un raggio di sole.

ELSA BALDINU

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