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Il gusto della scrittura d’autore
Quando leggo le storie di Maurizio de Giovanni esse hanno il sapore delle mie origini, evocano la mia terra attraverso profumi immaginati e linguaggi silenziosi.
03/10/2014, 11:02 | Attualità
“Quando io penso vorrei mangiare pane con sale e olio, non soltanto ne ritrovo subito il gusto, ma mi sento legato a coloro che lo assaporarono con me, assai più che dai naturali vincoli di sangue”.
Così dice il grande Giuseppe Marotta, e io non posso fare a meno di pensare metaforicamente alla scrittura di Maurizio de Giovanni.
Ma perché, vi chiederete, associare un alimento così semplice alla ricca produzione letteraria di uno scrittore?
Perché quando leggo le storie di de Giovanni esse hanno il sapore delle mie origini, evocano la mia terra attraverso profumi immaginati e linguaggi silenziosi. Ma sento anche che questo coinvolgimento emotivo ha il crisma dell’universalità, che non si ferma all’ambito regionale.
Come un pane di qualità, appunto.
Il pane, sale e olio, alimento semplice e appetitoso, per fortuna, non più associato alla indigenza o alla fame della guerra, per noi, bambini dei primi anni ’60, non era altro che una merenda gustosa, resa ancor più saporita se condita con l’aggiunta di qualche pezzetto di pomodoro, rustica alternativa al pane spalmato di ricotta e spolverizzato con lo zucchero.
Per una buona fetta di pane, sale e olio serve pane saporito e ben lievitato, fresco di giornata o anche leggermente raffermo, olio d’oliva profumato di frantoi mediterranei, e quel pizzico di sale, sparso con le dita con mossa rapida e sapiente, un gesto semplice e antico che nasconde dentro di sé abilità consolidate.
Come raccontare una storia, e scriverla.
Il pane è il racconto della vita, l’olio l’inchiostro con il quale si scrive, il sale il condimento che dà sapore al tutto, con le emozioni senza tempo.
Il pane migliore, quello preparato dalle nostre nonne con il lievito madre, che a Napoli, con parola evocativa della fermentazione, si chiama ‘o criscito, nasce da un’alchimia di gesti e situazioni perché altrimenti ‘a pasta si piglia collera, impazzisce, si dispiace di non essere trattata con le debite attenzioni. L’impasto si deve amare, con passione.
Ma la fatica di una lunga preparazione è ricompensata dal risultato: un pane più saporito e soprattutto di più lunga durata, fino a dieci giorni senza che diventi raffermo.
Ecco, gli scritti di de Giovanni sono un pane che si nutre di lieviti antichi, la migliore tradizione letteraria partenopea, quella della Serao, Mastriani, Marotta, De Filippo, Artieri. Raccontano realtà semplici, e svelano verità complesse con una delicatezza forte ed incisiva che non si dimentica. Lasciandoci sempre un intenso desiderio di leggere, leggere ancora.
De Giovanni ha il dono, perché di dono si tratta, di essere poeta della semplicità, capace di trasformare situazioni e sentimenti della quotidianità in narrazioni affascinanti e magnetiche.
Spazia con disinvoltura dal romanzo di genere al racconto umoristico, dal testo teatrale alla scrittura giornalistica, ma trova, senza dubbio, nelle storie della saga ricciardiana, ambientate nella Napoli negli anni ’30, uno dei suoi registri migliori.
Maestro dell’affabulazione, acrobata dei colpi di scena, capace di rendere intuibili, silenzi, ammiccamenti e gestualità da chi è napoletano, e da chi non lo è, de Giovanni scrive anche senza parole. Perché si diverte, e diverte. Perché ama le sue storie, favole strane e bellissime, come strane e bellissime sono le storie della vita. Ne è sedotto e seduce.
Il fascino della sua scrittura è stare dentro i canoni narrativi della cosiddetta scrittura di genere, ma starne fuori per maestria letteraria, con intriganti sovrapposizioni di piani di lettura e personaggi che tratteggiano problematiche di vita, assolutamente atemporali.
Uno scrittore racconta storie, poco conta quale sia lo spunto che le fa nascere. L’importante è che sia in grado di rapirci in un’altra dimensione spazio-temporale lasciandoci, alla fine, più ricchi dentro, segnati da un graffio sull’anima. Se l’obiettivo è centrato, allora vuol dire che siamo di fronte ad un’opera letteraria, letteraria e basta. Impropria ogni aggiunta di etichetta di genere.
E poi nei suoi scritti c’è una Napoli fotografata senza alcuna indulgenza oleografica: la città è la protagonista incontrastata, è la madre di ogni scena. Il suo caleidoscopico mare accompagna ogni personaggio, ne insegue ogni suo sentimento, ne profuma la pelle, ne colora l’anima. Napoli è per lui una città simbolo, l’emblema di un’umanità rassegnata e rabbiosa, dolente e felice.
Una città che esprime la sua nobiltà a prescindere dalla classe sociale, e dove anche i secolari problemi che l’attanagliano, rappresentati con la potenza di creatività, la rendono eterna vincitrice sul piano della genialità.
Una città che non ti abbandona mai, anche quando ne sei lontano per anni, per decenni. Per una vita.
Se è vero che il tempo si misura con le emozioni, quello trascorso con de Giovanni vola. Un romanzo di quattrocento pagine, come un racconto di quaranta, finiscono in un soffio e la delusione di essere già arrivati all’ultima pagina è sempre in agguato. I personaggi, intensi anche se minori, balzano fuori dalle pagine che li contengono, vivono di vita propria, diventano nostri amici perché l’osservazione è mossa dall’attenzione al sentimento.
L’intreccio narrativo è spunto per scrutare l’umanità, e arma di seduzione. Il racconto ci imprigiona nelle sue spire come l’impasto si appiccica alle dita del fornaio, ma alla fine, per magia, ci troviamo nelle mani una pasta morbida ed omogenea che si trasformerà in un pane saporito.
E noi lettori, ci siamo dentro quel pane, ci sciogliamo dentro quell’impasto, diventiamo solubili nelle pagine del racconto.
Ci si perde in quelle storie, e mai smarrimento fu tanto ammaliante.
Premio Ferri-Lawrence a Maurizio de Giovanni.
dalla Motivazione di Giovanna Ioli
Nell’assegnare il Premio europeo per la narrativa Ferri-Lawrence a Maurizio de Giovanni per il settimo romanzo della sua Saga poliziesca, In fondo al tuo cuore. Inferno per il commissario Ricciardi (Einaudi 2014), la giuria ha riconosciuto la capacità di prendere – come diceva Carlo Bo per Simenon – “un uomo anonimo dalla folla e farlo diventare una domanda, un piccolo problema: di raccontare la storia dell’uomo che ognuno di noi è sotto gli abiti, gli atteggiamenti, la storia che ci costruiamo: l’uomo che siamo e non sappiamo più di essere”. Il grande studioso ricordava certamente il giudizio di André Gide, che aveva rilevato come connotati sicuri dell’arte raffinata dello scrittore belga, una penetrante capacità di osservazione, finezze di psicologia e di stile, liberando così dal sospetto di letteratura minore quella che utilizza la figura seriale di uno schema poliziesco. Non si possono, tuttavia, chiamare a testimone nomi così autorevoli senza precisare che il lavoro di Maurizio de Giovanni acquista un significato particolare proprio nella scelta della sequenza, che non è semplicemente un susseguirsi di storie sul modello di celebri e popolari avversarsi del crimine, ma è una struttura che travalica i confini di un solo libro. In fondo al tuo cuore, infatti, è solo un tassello di un ben più ampio mosaico che da un decennio l’autore sta componendo per ricostruire l’immagine della sua città, la vera protagonista di una “saga”, appunto, vale a dire il racconto epico delle vicende di un popolo e di un personaggio anonimo al quale l’autore restituisce un’identità.
Grazie alla sua penna il commissario è un uomo sfuggito al silenzio del passato per rappresentare un intreccio di rapporti umani che fanno maturare amori e delitti, ma soprattutto per personificare una città, con le sue atmosfere, l’alternarsi delle stagioni, le feste religiose, gli odori, i sapori, i cieli e la ricchezza popolare e culturale dei suoi abitanti. È Napoli la vera protagonista di queste storie: sette storie per un anno, potrebbero infatti chiamarsi i romanzi seriali di Maurizio de Giovanni, perché scandiscono il succedersi di stagioni dal 1931 al 1932 riproducendo l’ambiente con una precisione storica e topografica così minuziosa da sembrare visionaria, offendo al lettore il massimo del realismo narrativo. (…)