Sei in: News » Arte e Cultura » IL RACCONTO- La Penna, di Maria Teresa Petrini
IL RACCONTO- La Penna, di Maria Teresa Petrini
23/11/2020, 11:20 | Arte e Cultura
La mia penna, la mia bella penna, la mia bellissima penna.
Mi sono sempre piaciute le penne, hanno esercitato su di me un fascino particolare.
Ho vissuto molti cambiamenti dello scrivere con la penna. Nelle elementari era di legno con il pennino che si doveva intingere nell’inchiostro nero e denso. La bidella, al mattino, lo metteva nel pozzetto rivestito di metallo in cima al banco di legno dove due bambine, giorno dopo giorno, imparavano a scrivere e non solo.
In prima usavamo la matita e la gomma da cancellare che erano “le armi del mestiere.”
Dalla seconda classe fino alla quarta elementare ho usato la penna con il pennino che intingeva nell’inchiostro, una vera tortura. Bisognava intingere mezzo pennino perché se si intingeva tutto la macchia sul foglio era assicurata. Si poteva scrivere, al massimo, una parola breve perché l’inchiostro finiva e si doveva inzuppare il pennino, guai a distrarsi! I peggiori erano i dettati, perché la maestra aveva il suo ritmo a cui dovevamo adeguarci. Era un po’ meglio con i temi, scrivere mi è sempre piaciuto, pennino a parte. In quinta elementare è accaduto un miracolo: una mente illuminata vide una pallina rotolare nel fango e lasciare una scia nel terreno, pensò e pensò molto bene di usare questo metodo per scrivere e inventò la penna a sfera. Da allora i miei fogli furono sempre puliti, finite le macchie e le sbavature, anche i caratteri sembravano più belli, forse perché meno faticosi.
Da allora, come tutti credo, ho usato questo tipo di penna e ne ho usate molte, cercando ogni volta la migliore. Diventavo sempre più difficile da accontentare, le sceglievo di un colore non troppo intenso perché mi stancava guardarle, il colore dell’inchiostro o meglio il colore dello scritto non troppo scuro e non troppo chiaro, l’impugnatura poi doveva adattarsi alla mano e ai polpastrelli che la guidavano. Scartavo quindi quelle di forma quadrata e con angoli puntuti, davo la preferenza a quelle rotonde e di giuste dimensioni.
Così con queste amiche-nemiche penne sono trascorsi tanti anni, sono diventata una scrittrice, se non proprio famosa, di sicuro, molto impegnata.
E così un giorno sei arrivata tu! Abbiamo scritto tanto: tu ed io. Io la mente e tu il braccio! Almeno così ho creduto per lungo tempo, prima di cominciare a scrivere ti guardavo a lungo, pensavo alla trama, ai personaggi, ai vari avvenimenti da inserire e come legarli gli uni agli altri.
Tu eri sempre lì, vicino al foglio e alla mia mano, sei sempre stata molto bella, curata in ogni particolare. Per cominciare la tua forma è sempre stata in sintonia con la mia mano: facile e giusta da impugnare, proprio sopra il puntale d’acciaio le mie dita ti avvolgevano per metà della tua lunghezza. Stringevo quella lacca bianca quasi con voluttà al pensiero di ciò che avremmo scritto di lì a poco. A guardarti bene non è proprio una lacca bianca, ma un colore indefinito tra l’avorio e l’opaline, non abbaglia come un bianco luminoso, ma rasserena nella sua smorzata opacità.
Questa parte di lacca è sovrastata da quattro o cinque centimetri di un cilindretto trasparente, ripieno di minicristalli che brillano alla luce del sole e a quella della lampada. Sono molto grata a questi cristallini perché tengono sempre desta la mia attenzione, è molto importante per chi scrive, guai ad essere interrotti o a perdere il filo del racconto. Con te non è mai successo, anche perché hai attaccata alla cima una piccola catenella che termina con un cristallo incastonato in un tondino di lacca. Ad ogni parola che scrivo batte sulla penna e il suo tintinnio è una musica che mi tiene compagnia per tutte le ore che scrivo. Per meglio dire: scriviamo, io la mente e tu il braccio.
Questo ho sempre pensato, ma spesso ho avuto dei dubbi. Quando scrivevo qualcosa di particolarmente intenso, ti sentivo vibrare, lo facevi piano, quasi timorosa di offendermi, ma io mi accorgevo e rileggevo” il pezzo” e spesso, per farti contenta. Smorzavo i toni. Capivo, sai, quando l’argomento ti piaceva e ti coinvolgeva, vibravi fitto fitto, il ciondolino appeso alla catenella batteva sulla penna con una intensità consapevole. Sembrava dire: ”Sì! E’ così! Proprio così, ancora scriviamo ancora, questo argomento mi piace!” Ti piacevano i romanzi storici, i personaggi che vi inserivo godevano della tua ammirazione, chissà perché, in fin dei conti l’uomo che sia moderno o del passato ha avuto sempre gli stessi vizi e le stesse virtù. Inoltre mi sono accorta che non ti piaceva il finale triste, quando cominciavo a scriverlo: rallentavi, il tratto diventava incerto e il colore sbiadito. I finali lieti ti facevano correre sulla carta e il ticchettio del tuo ciondolo-cristallo diventava allegro, intenso, anche quando la frase era terminata continuavi a dondolare, sembrava dicessi:” Brava! Proprio così! Era ora che lasciassi stare tutti quei morti sembrava che scrivessi un romanzo giallo!” Capivo allora che ciò che avevo scritto era un buon pezzo.
Così per anni io e te, lunghe ore a tavolino, io mi stancavo sempre più spesso con il passare degli anni, tu, invece, eri proprio instancabile, volavi sui fogli. Ogni tanto cambiavo la mina perché si consumava, d’altronde con quei ritmi, ti lucidavo con un morbido panno ed eri pronta a ricominciare con nuovo entusiasmo. Brillavi nella lacca opalescente e nei cristallini quando un raggio di luce ti colpiva. Mi sono accorta, sai, quando ti mettevo nella borsetta e ti portavo alla presentazione del mio ultimo romanzo, al momento di firmare le dediche sembravi brillare di luce propria. Avevo l’impressione che le scrivessi da sola le parole delle dediche:” Con simpatia, con molta simpatia, con amicizia, con gratitudine.” Quando una persona non ti era particolarmente simpatica, ti limitavi alla sola firma e non c’era verso di farti scrivere di più.
Poi è successo tutto lentamente, ci ho messo un po’ a capire che qualcosa non andava. Facevo fatica a scrivere; i caratteri non erano più nitidi ma come slavati, sbafati, difficili da leggere. Ho cambiato gli occhiali ma non è cambiato nulla. Tu invece cambiavi giorno dopo giorno perdendo la lucentezza e il brillio, insomma: lo smalto. Ti lustravo con il solito panno ma restavi sempre opaca, quando ti prendevo in mano per scrivere sentivo come una… resistenza. Scrivevamo, è vero, ma quanta fatica! Ogni volta che cominciavo a scrivere speravo che avresti risposto, collaborato.
Riuscisti a farmi pesare quello che era sempre stato per me una grande gioia: lo scrivere!
Quando ti prendevo in mano ti soppesavo, ti guardavo, ma poco dopo la mano mi ricadeva inerte,
ti poggiavo con un sospiro che forse ricambiavi, mi alzavo e non scrivevo più.
Andammo avanti così per un bel po’ di tempo, ma non potevo continuare, avevo degli impegni da rispettare. Una mattina mi decisi, uscii presto e mi recai in un negozio che conoscevo e le cui vetrine avevano spesso attirato la mia attenzione. Entrai decisa a tutto, infatti uscii due ore dopo con un grosso pacco sotto il braccio.
A casa lo poggiai sul tavolo e cominciai a scartarlo, tu mi guardavi da sopra il foglio bianco, dove eri poggiata mi sembrò di vedere un brillio di interesse.
Mi Sedetti ben comoda davanti a quel “coso” nero come la notte, ma che si accendeva con luci diverse a seconda dei tasti che toccavo. Proprio così: avevo comprato un “computer”, anzi come viene chiamato, per risparmiare tempo, un PC, che significa Personal Computer.
Cominciai subito a scrivere, con difficoltà ma d’altronde anche quando avevo cominciato a scrivere con il pennino inzuppato nell’inchiostro non era stato facile. Ci volle un po’ di tempora alla fine ero abbastanza veloce. Tu stavi sempre nello stesso posto, sul foglio bianco, ma mi sembravi interessata, un po’ curiosa, eri sempre spenta ma, forse, un po’ meno.
Quando mi fermavo e ti guardavo all’improvviso vedevo un brillio di interesse che subito spegnevi.
Ero molto coinvolta dal romanzo che stavo scrivendo e ti guardavo poco, però avevo la strana impressione che tu in qualche modo partecipassi.
Come tutte le cose del mondo finì il romanzo, con un sospiro di soddisfazione scrissi la frase finale, che, per chi non lo sapesse, è la parte più difficile di uno scritto perché lascia a lungo l’eco!
Dicevo, appena terminato di battere, lo stampai e cominciai a rileggerlo sulla carta stampata, che è un’altra cosa dalla lettura al PC, più calda, più emozionante. Una frase mi sembrò mal impostata e decisi di riscriverla a bordo del foglio, allungai la mano e presi la penna, per antica abitudine,
cominciai a riscrivere la frase. La penna scivolava leggera, lo scritto nitido, mi colpì il tintinnio del cristallo appeso alla catenella, aveva un suono, come dire, di birichina soddisfazione, come chi ha ottenuto ciò che voleva e aspettato a lungo.
La poggiai sul foglio e la guardai: era di nuovo giovane, luminosa nei suoi colori dolci, i cristallini incapsulati nel cilindro brillavano come non mai.
Un pensiero mi colpì e lo esternai questo strano pensiero:” Mia cara penna, vecchia amica, per caso hai fatto apposta tutta la scena dell’incapacità per farmi scrivere al computer? Cerca di farmelo capire!” E me lo fece capire con un brillio più intenso, che durò un attimo, l’attimo di un: ”Si!”
Compresi che, tutta la sceneggiata che aveva messo in atto, era un gesto d’affetto, se una penna può provare affetto, ma io volli crederlo. Scrivere al PC era più veloce, più comoda la posizione e inoltre mi correggeva gli errori in automatico. Un bel cambiamento, mi sentii moderna, alla moda, un bel cambiamento pensai con soddisfazione. “E tu, mia penna, cosa farai? Starai vicino ai miei scritti stampati e ti accontenterai di essere usata solo per le correzioni?” La guardai e un altro brillio di mi confermò che avevo indovinato tutto!“ Va bene! Accetto! Però tu mi starai accanto e correggeremo insieme, inoltre verrai alle presentazioni dei romanzi e scriverai le dediche! Insomma farai la vita della pensionata che controlla i nipotini! D’accordo?” Le feci l’occhiolino e, questa volta ne sono sicura, mi rispose a modo suo.
FOTO Maria Teresa Petrini