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La verità dei sensi, sentire la vita: Claude-Oscar Monet, di Elsa Baldinu
a 180 anni dalla nascita (14 novembre 1840)
14/11/2020, 12:57 | Arte e Cultura
Cosa c’è di più autentico di un’impressione? Sì, perché la realtà oggettiva – la famigerata “cosa in sé” espressa dal noumeno kantiano (Critica della ragion pura, 1743) – è fuori dalla portata umana. Ci si affanna a comprendere l’incomprensibile, un fantasma sfuggente nel castello del tempo: il fenomeno – l’intuizione sensibile del reale – è tutto ciò che l’uomo possiede. Ecco che, se si tenta di trattenerlo, il mondo scivola tra le dita; al contrario, ogni qualvolta se ne contempli l’essenza, questo dischiude il proprio segreto, come un’ostrica la propria perla.
Chi, se non Monet, ha nobilitato i sensi con la propria arte? Adolescente scanzonato dedito alle caricature, Claude-Oscar scopre ben presto la vocazione paesaggistica: complice la compagnia di Eugène Boudin – suo primo maestro – e il vivace ambiente parigino – che gli offre l’amicizia di Manet, Renoir e Sisley –, Monet sviluppa un metodo rivoluzionario, in rotta con l’accademia dei Salons. Fedele a un inedito panteismo pittorico, dove soggetto e spazio hanno pari dignità, egli fonde nel proprio tratto le mille anime dell’universo, con lo sguardo proteso alla mutevolezza delle cose: se tutto scorre, come attesta il panta rei eracliteo, il pittore non ne ostacola il flusso, ma studia il divenire con saggezza, documentando la propria esperienza visiva.
Luce vibrante e colore puro, pennellate distinte, pittura “en plein air”: questi i postulati della nuova arte, che dà voce all’impressione prima che intervenga l’intelletto a intaccarne l’immediatezza. Si pensi alla tela che dà il nome al movimento, Impressione, sole nascente (1872), esposta nel 1874 alla mostra che consacra il gruppo: un’alba dai riflessi ovattati sulle acque portuali di Le Havre. Lo spettatore viene cullato da un’atmosfera onirica, da forme abbozzate e contorni sfumati. L’inconfondibile tocco impressionista, che a una certa prossimità appare disgregante, sorprende a debita distanza: ecco che la tela restituisce una visione d’insieme, persino più veritiera del cosiddetto realismo.
L’impressione è il primo e solo approccio alla realtà, i sensi gli unici mezzi di cui dispone l’uomo per fruire la vita: se non si può conoscere l’obiettività delle cose, se ne può invece ammirare la bellezza, come accade ne I papaveri (1873), in cui la scia di macchie rosse sul verdeggiante prato di Argenteuil racconta una bucolica e spensierata quotidianità, fino ad allora esclusa dal canone.
Persino l’architettura, nell’incontro con la luce, ha da offrire una preziosa lezione: le trentun versioni della Cattedrale di Rouen mostrano la pluralità del singolo, in balia delle condizioni esterne. Non ci si bagna due volte nello stesso fiume, dice il filosofo di Efeso: Monet subisce il fascino del cambiamento, ne apprezza le sfumature, coglie il nuovo nell’ordinario.
Che dire, infine, delle innumerevoli riproduzioni di ninfee – fiori itineranti dallo spirito impressionista –, dei covoni delle campagne di Giverny, delle vedute normanne innevate: la natura sa stupire, se accolta con genuina predisposizione, il creato si concede a chi lo sa osservare.
L’impressionismo – questo l’insegnamento del suo più fedele seguace – è, prima di tutto, un sentire la vita senza la pretesa di comprenderla, così da comprenderla appieno, paradossalmente.