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Nicoletta Bortolotti e i bambini strappati al silenzio, di Neria De Giovanni

07/09/2018, 11:50 | Arte e Cultura

Nicoletta Bortolotti mi sorride dalla foto nella bandella di copertina del suo ultimo libro “Chiamami sottovoce” (HarperCollins Italia, 2018, pagg. 360, 17 euro).

Una giovane donna solare, autrice affermata di romanzi per ragazzi, nata in Svizzera, vive in provincia di Milano. Notizie che mi chiariscono molte cose a fine lettura di questa sua ultima opera. Infatti il libro racconta una vicenda ambientata tra Milano e la Svizzera e la voce narrante è spesso quella di un bambino.
 

Dico “spesso” perché il libro si presenta come l’alternanza di diverse voci narranti: Nicole, in un presente del 2009 a Milano; Michele, bambino in Svizzera nel 1976; corsivi senza denominazione dove è Delia, ma in terza persona, ad essere protagonista di una storia ambientata negli anni trenta, durante l’insorgere del fascismo e nazismo tra Italia e Germania.
 

Tre personaggi su tre tempi del racconto diversi che il lettore piano piano ricostruisce e intreccia nel loro rapporto, che è poi la storia stessa.
 

Una storia dolorosa accaduta realmente a centinaia di bambini in un passato molto recente, gli anni settanta del secolo scorso e non in un continente lontano ed “esotico” bensì nella civilissima e confinante Svizzera.
 

Allora. Quando si doveva scavare la Galleria del San Gottardo molti erano gli italiani che andarono a fare manovalanza. Ma per una legge svizzera non potevano portare con loro i figli. Rischiavano l’espulsione dal Paese e una pena detentiva per chi li avesse ospitati. Così chi non aveva possibilità di lasciare i bambini dai parenti in Italia, li portava con sé ma i piccoli dovevano essere occultati per passare la frontiera e soprattutto dovevano vivere nascosti, nel più totale silenzio e reclusione in cantine, soffitte, luoghi sicuri messi a disposizione da affittacamere coraggiosi e pietosi.
 

Questa la vicenda storica, il materiale da cui Nicoletta Bortolotti è partita per raccontare la vicenda di Nicole, la prima voce narrante, giovane donna con qualche tratto autobiografico dell’autrice, infatti lavora a Milano nell’editoria, come la Bortolotti, anche lei è nata in Svizzera e poi il nome di Nicole non è molto diverso da …Nicoletta!
 

Il libro si apre con Nicole che ritorna a Lugano dopo i funerali della madre dal cui testamento scopre di essere erede della casa dei nonni nel paese montano di Airolo. Riaprire la vecchia casa  sarà come riaprire uno scrigno di memorie che si dipaneranno lentamente e si ricomporranno nei ricordi di Nicole bambina e del suo amico immaginario.
L’altra voce narrate, quella di Michele bambino nel 1976, si svela essere il piccolo italiano nascosto che deve restare invisibile per permettere al padre di lavorare nella Galleria e alla affittacamere di non essere arrestata. L’affittacamere è proprio Delia, protagonista dei corsivi in terza persona, partigiana durante il fascismo, che non ha perso il coraggio di soccorrere chi è in difficoltà ed aiuta gli italiani nascondendo i loro figli in una soffitta attrezzata per questo.

 

Michele è il bambino che soltanto Nicole bambina scopre abitare nascosto accanto alla casa dei nonni e che da immaginario diventa vero e reale. Ma perché la polizia lo ha trovato e portato via? E che fine ha fatto? Soprattutto come è stato scoperto il suo nascondiglio?
Si tinge di giallo l’inchiesta e la ricerca cui Nicole adulta si sottopone per dare risposte a Nicole bambina che ha ritrovato la memoria dell’amico nascosto.
Non svelerò questo segreto che però tiene avvinto il lettore fino all’ultima pagina, ricostruendo le tre età del racconto e trovandone intrecci tra i bambini che Nicole e Michele sono stati negli anni settanta e gli adulti che sono diventati oggi.

“Chiamami sottovoce” è costruito con l’alternanza di pagine di diario in cui Nicole e Michele dicono “io”, sono la voce narrante attraverso cui si ricostruisce una vicenda che da personale diventa storica.
La forma del diario e della lettera privata è una tipologia letteraria molto cara alla scrittura femminile. Penso a “Caro Michele” di Natalia Ginzburg tutto giocato sulla ripetizione epistolare o a “Quaderno proibito” di Alba De Cespedes che fece scuola per l’utilizzo del diario privato che si allarga in una vicenda oltre le mura di casa. 
 

Perché Nicoletta Bortolotti ha scelto questa modalità di racconto? Forse perché lei, come molti di noi, pensano che la realtà storica sia come la percepiamo, sfaccettata, diversa a seconda della coscienza di chi la vive e  la memoria di chi la rivive. Anche chiamandola …sottovoce.

NERIA DE GIOVANNI
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