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EUGENIO MONTALE E LA TRADUZIONE DEL “CANTO DI SIMEONE” DI T.S. ELIOT

23/11/2017, 16:15
Eugenio Montale

Anche la prosa di Eugenio Montale e le sue traduzioni non mancano di presenze che hanno radici nel religioso. In “L’albero dell’arte” del 29 marzo 1962, ad esempio, il poeta per evidenziare come risulti “precario e misterioso il significato e il destino dell’arte nel mondo”, ricorre a due teorie contrapposte: quella del teologo Teilhard de Chardin, secondo il quale tutto tende verso un “punto Omega”, trascendente; quella marxista, tutta circoscritta nell’immanenza della razionalità umana. Pur se Montale fa rientrare l’arte nello specifico delle due teorie, tuttavia rimanda la questione (“Se ne riparlerà, se permettete, - afferma il poeta - tra molte centinaia di secoli, ammesso che bastino”) e conclude manifestando la sua apertura ad una “vita Formatrice”, utilizzando, non a caso, anche in prosa, come in molte sue poesie, la lettera , la “F”, con la maiuscola.

Mi ha colpito poi la traduzione di Montale di una poesia di Eliot, ossia Canto di Simeone. L’interrogativo che sorge è come mai Montale, poeta della negatività, del non senso e del pessimismo, si accosti ad un testo eliotiano di grande apertura teologica; Canto di Simeone, infatti, è una poesia che si snoda in un chiaro orizzonte escatologico:

la mia vita leggera attende il vento di morte
come la piuma nel dorso della mano …..
in quest’età di nascita e di morte
possa il Figliuolo, il Verbo non pronunciante
(ancora e impronunciato)
dar la consolazione d’Israele
a un uomo che ha ottant’anni e che non ha domani.
Concedimi la pace.
…………………………….
Fa’ che il tuo servo partendo
veda la tua salvezza.(Da: Quaderno di Traduzioni, Canto di Simeone)

Se tradurre non è per Montale un semplice atto dell’ “exprimere”, dell’ “imitari”, del “transferre”, cioè del sostituire una parola con un’altra, ma un momento creativo in cui si realizza la dimensione del “convertere”, ossia del ricreare un testo accampando in esso tutto il proprio mondo interiore; se tradurre non è dunque transferre ma convertere, allora io credo che la scelta di Montale di tradurre Canto di Simeone di Eliot, dove si parla di pace eterna, di salvezza, di vita dopo la morte, di consolazione del Verbo fatto carne, non sia casuale né mossa da intenti filologici e puramente linguistici, ma obbedisca piuttosto ad un processo della anima montaliana che tende ad appropriarsi e a riconoscersi nel testo per metterlo in relazione con la dimensione della fede cristiana maturata nell’ultima fase della sua vita.
 


 

DOMENICO PISANA

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