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IL FALO' E LE ETNIE. UNA ANTROPOLOGIA DELLE CIVILTA' NEL MEDITERRANEO DEI POPOLI

30/03/2017, 12:27
Pierfranco Bruni

Il falò e le antropologie sono nelle etnie delle civiltà. Il rito tra sacro e profano si intrecciano. Un intreccio che è tradizione. Ma ci sono storie che non vanno dimenticate. La storia dei falò. Nella geografia dei falò si intravedono alcune visioni, interpretazioni, stimoli e dimensioni che conducono direttamente ad una questione simbolica, a una questione mitico - simbolica.

Tale lettura ha chiaramente uno scavo nella cultura popolare, in quella cultura popolare che, senza un’interpretazione etno - antropologica, non sarebbe possibile catturare. La nostra storia, tutta la storia che abbiamo attraversato nei vari cicli delle civiltà, nelle società, nelle temperie, è storia di antropologia. Dobbiamo partire da questo presupposto per comprendere fino in fondo che le culture nazionali, prima di essere tali, sono state “culture delle contaminazioni”, ovvero culture che si sono intrecciate con popoli, e quindi con civiltà, che hanno lasciato un segno tangibile all’interno dei vasti territori.
Il popolo è fatto di etnie, partiamo da questo presupposto. Il fuoco e la cenere.  Video della Rai :  https://www.youtube.com/watch?v=2RPWYHyzAV8.

Ciascun popolo ha lasciato in un territorio, o in quello che ha attraversato, o in quello autoctono, oppure in quello nel quale ancora vive, dei segni tangibili. Riflettendo sul “concetto di fuoco e di falò”, mi viene da pensare ai quei popoli e a quelle civiltà che hanno contrassegnato la Magna Grecia e i modelli storici geografici del Salento. Magna Grecia e Salento sono due geografie che sembrano avere due storie diverse, ma che rappresentano una interrelazione tra popoli e civiltà.

Tutto ciò si deduce dalle tradizioni, da un tramandare elementi che oggi sono elementi prettamente culturali e che ieri erano elementi della quotidianità come, ad esempio, il rapporto e il legame tra il “fuoco e il pane”. Il fuoco è la terra, è la luna (penso a “La luna e il falò” di Pavese) ma, sul piano antropologico, è un linguaggio che parla attraverso la tipologia delle fiamme che diventano il racconto di una favola. Se una fiamma di un falò presenta delle lingue, o le lingue delle fiamme (le lingue sono quelle spaziature che il fuoco crea) vuole dire che usa, attraverso la rappresentazione simbolica, diversi linguaggi. O meglio, noi leggiamo in quell’usare quella prospettiva delle fiamme, diverse tipologie dei linguaggi.

Ci sono in terra di Magna Grecia e di Salento tre falò (Focara, tre focra, fanùa-oi) che rimandano ad una cultura in parte balcanica, in parte mediterranea. “Balcanica” in quanto intorno al falò si creava il concetto di piazza, si coagulava il concetto di “agorà” (la piazza greca era l’agorà che è stata trasportata poi nella cultura mediterranea). Il fuoco si costruisce in uno spazio. La fiamma si erge in uno spazio, quello spazio che rappresenta un incontro di persone, ossia un incontro di civiltà e di popoli.

Nella cultura balcanica, in modo particolare nella cultura albanese, si parla di ghitonia, vale a dire il “vicinato” che crea una piazza per far “esplodere” queste frasche, questi gomitoli di legname, ramoscelli, al fine di dare un senso anche alla consumazione di ciò che la natura e la stagione autunnale e invernale hanno lasciato come atto propiziatorio per la primavera e per l’estate.

Il fuoco non è altro che un passaggio propiziatorio tra le stagioni. Dobbiamo entrare in questa visione simbolico o antropologica, poiché non si fa un falò tanto per fare, per rispettare una tradizione o per richiamare turisti e visitatori; si fa un falò per rinforzare un’identità. Il falò rinforza un’identità. Penso al fuoco come concetto di passione. Cos’è la passione in amore e in altri contesti esistenziali? È questo “fuoco “che tocca le anime, le coscienze, il cuore,  il cervello.

Il falò, sul piano antropologico territoriale, è “rinfocolare” il concetto di focolare, di comunità (intorno al fuoco si ritrovavano le famiglie) ma, alla stesso tempo, è recuperare un’identità comunitaria.

Le tre realtà sulle quali mi sono spesso soffermato, e sulle quali continuo a lavorare, che toccano la Magna Grecia pugliese e il Salento, sono: Novoli, Grottaglie, che diventa un punto nevralgico, e San Marzano di San Giuseppe.

Ci troviamo di fronte a una comunità come Novoli, che è una comunità salentina avente una tradizione culturale barocca, non solo dal punto di vista architettonico, il cui modello culturale letterario è stigmatizzato su una visione del classicismo vero e proprio.

Ci troviamo di fonte a una realtà quale Grottaglie che ha assorbito diversi modelli culturali, da Plinio fino alla cultura post greco latina, alla cultura della ceramica che ha una sua visione all’interno del Mediterraneo, ma anche del mondo bizantino orientale balcanico e, quindi, a metà strada tra il concetto magno greco e il concetto culturale salentino.

Città delle ceramiche che ha una visione  (più volte lo abbiamo trattato nelle trasmissioni della RAI) del tutto autonoma rispetto al mondo greco ma, nel contempo, c’è il recupero della grecità in molta ceramica e il “fuoco” diventa fondamentale sia come elemento propiziatorio, che come comunanza di un territorio, come comunanza di una cittadina intorno a questo falò.

Novoli, che richiama tutto il territorio intorno a sé, ormai è una tradizionale decennale. Tra Grottaglie e Novoli, San Marzano di San Giuseppe è l’unica comunità che presenta delle tradizioni etnico - simboliche. È una comunità italo albanese, una comunità di lingua illirica, le cui radici sono illiriche, una comunità che porta in sé una tradizione prettamente orientale. Tra le tre città è quella più profondamente orientale, in cui l’Oriente è avvertito nella lingua, nel dialetto, che proviene da questa lingua, e in molte occasioni, anche moderne e contemporanee, la visione orientale è propedeutica per una chiave di lettura che riguarda anche il territorio urbanistico.

La cultura antropologica dell’Oriente è una cultura antropologica che si innesta in quella religiosità forte, consistente. Ritengo che questo sia un dato fondamentale perché i tre fuochi che ho preso in considerazione ci rimandano a una dimensione “altra”, una dimensione prettamente sciamanica poiché il fuoco è una visione sciamanica, una visione della cultura sciamanica.

Ebbene, queste tre comunità, queste tre realtà, presentano un rapporto costante con la cultura religiosa. Novoli ha come punto di riferimento San Antonio abate che si festeggia il 17 Gennaio. Grottaglie ha come dato propiziatorio San Ciro la cui figura, enigmatica per alcuni aspetti, è una figura che possiede una sua simbologia all’interno di quegli archetipi che noi troviamo anche nell’abitativo, o nell’abitato storico di Grottaglie. Simboli che si manifestano in modo eclatante.  San Marzano di San Giuseppe ha quella configurazione albanese – illirica - balcanica, ma già il nome è abbinato alla figura carismatica di San Giuseppe che viene festeggiato il 19 Marzo, a differenza di San Ciro che si festeggia il 31 Gennaio.

Tre santi, tre falò.

Ci sono altri santi che vengono caratterizzati con il concetto mitico- simbolico- popolare- religioso del falò. Mi viene da pensare al falò di San Giovanni, ma questo è un altro discorso sul quale ritornerò in altre occasioni. Tre territori che richiamano il mondo mitico - simbolico della grecità soffusa nel territorio della Magna Grecia che è diventato Regno di Napoli; attenzione, perché la storia ha una chiave di lettura ben precisa e Grottaglie, con il Regno di Napoli, ha avuto un legame forte, costante, a partire dal contesto storico pre-barocco. San Marzano ha avuto un rapporto con la Magna Grecia mediterranea ma, in modo particolare, con la grecità macedone dei Balcani la cui figura fondamentale è rimasta il mito di Scanderbeg.

Novoli è la figura di San Antonio abate. Attenzione a non dividere la figura di San Antonio nelle sue varie sfaccettature, perché San Antonio abate è una figura anch’essa portatrice di un concetto forte in cui la visione del deserto, della terra, del viaggio, costituiscono ancora oggi degli elementi importanti.

Queste tre caratteristiche rappresentano il fuoco. Il fuoco è bruciare il passato, è spegnere tutto ciò che c’è di cattivo, di male sciagurate che ha portato il passato che si è trasformato in memoria ma, nello stesso tempo, con il fuoco, anzi, con la fiamma che tocca il cielo e la luna, si va verso la speranza, verso la luce. In fondo, il fuoco acceso di notte non è altro che la possibilità di credere nella questione della luce divina. Ecco perché entrambi sono abbinati non a figure mitico - pagane, ma sacro-religiose. In questo concetto di sacralità, di religiosità e, se vogliamo, anche di cristianità cattolica e ortodossa allo stesso tempo, noi leggiamo la contestualizzazione di un territorio.

Il territorio. È questo il dato principale.

Da una parte vi è lo spazio concepito come agorà, dall’altro lo spazio come di ghitonia. Il fuoco nel mondo balcanico e nel mondo albanese viene chiamato “ziarre”, il più delle volte si dice “fuoco mio, ziarre - im”.

Se noi analizziamo il contesto lessicografico e la koinè si evince che il fuoco è propiziatore di cose buone, belle. Ecco perché bisogna allora analizzare le “lingue del fuoco”. Perché si fa questo? Perché in una lettura antropologica il “fuoco” lascia la cenere e la cenere resta per molti giorni soffusa, spenta, non smette di bruciare gli ultimi rimasugli. Ma dove sta la lettura vera e propria? Sta nel cercare di catturare, se vogliamo, di “percepire”, anche quella dimensione in cui le fiamme si biforcano, in cui la fiamma si biforca.

La lingua del fuoco, il linguaggio del fuoco.

C’è un linguaggio a lingua di serpente, un linguaggio dritto che tocca direttamente il cielo e la luna, ci sono diversi tagli della fiamma. Bisogna vedere dove il vento li spinge, perché il legame con il fuoco è il vento. Verso quale direzione il vento spinge queste lingue di fuoco? Verso Est, Ovest, Occidente, Oriente? È questo che l’antropologo cerca di capire, attraverso gli strumenti della simbologia carismatica, del carisma, attraverso la simbologia della visione e della dimensione di un rapporto tra storia, civiltà e modello onirico, perché, in fondo, la direzione delle lingue di fuoco sono le direzioni di un percorso che è un percorso onirico che è stato prioritario per capire le civiltà originarie.

Nel mondo neolitico i falò avevano una loro rappresentazione vera e propria. Nel mondo paleocristiano hanno avuto una dimensione ancestrale. Tuttavia il fuoco, nella simbologia complessiva, assumeva anche il significato “del voler distruggere tutto”. Si pensi ai santi che sono stati bruciati vivi. Si pensi anche a quelle figure scomode come Giovanna d’Arco, Giordano Bruno, ma questo dipende da altri discorsi che all’interno dell’antropologia pongono l’attenzione sulla storia.

Per ritornare a queste tre comunità (Novoli, Grottaglie, San Marzano) esse si trovano in una geografia magno-greco-salento avente come prospettiva il mare, la grotta, la terra.

Il mare, la grotta, la terra.

Tre caratteristiche simboliche che si inseriscono in quella dimensione che è la dimensione della divisione tra il sacro e il mito. Qui il sacro e il mito interagiscono, ma subentra chiaramente la dimensione profondamente religiosa. Si tratta, quindi, di “celebrazioni” in cui la religiosità (cattolica, ortodossa, il mondo cattolico) prende il sopravvento perché sono caratterizzate, come si è detto, da tre figure importanti: San Antonio abate, San Ciro, San Giuseppe.

Se le civiltà, i popoli, insistono ancora nella quotidianità nel conservare intatta questa tradizione, significa che dentro questa tradizione non deve smettere assolutamente di vivere quell’identità che è identità di un popolo e che ha bisogno di confrontarsi con le contaminazioni.

Grottaglie è una città fulcro, a mio avviso, all’interno di queste visioni perché ha assorbito molti condizionamenti dai popoli che si sono succeduti sul territorio e le tante chiese (dal Santuario a San Francesco di Paola, a San Francesco De Geronimo, alla Chiesa Madre) sono modelli rappresentativi in cui non c’è soltanto la ritualità, la tradizione religiosa, bensì anche l’antropologia popolare che richiama una dimensione in cui viaggi sono costituiti dai viaggi in processione del santo e dei santi.

Che cos’è la processione in termini antropologici?

È il far viaggiare il santo attraverso i luoghi nei quali è giunto e nei quali è stato, ed è ancora, un importante riferimento. Ecco perché la processione, o le processioni, costituiscono un legame costante con la santità del luogo, con la rappresentatività del santo del luogo, ma sono costantemente legate a una dimensione che noi consideriamo pagana, ma che pagana non è. Di conseguenza, il fuoco, la focara, la foca, il falò non sono assolutamente da considerare elementi pagani. Essi rappresentano il legame con la religiosità. Soltanto in questo legame è possibile recuperare il “senso del sacro” che vive nella cultura popolare antica, nella cultura popolare della modernità e della contemporaneità.

Tuffiamoci pure in questa contemporaneità per comprendere le radici e le storie di un popolo, ma senza la lettura antropologica oggi diventa difficile assicurare una riappropriazione di questa identità, aspetto questo necessario soprattutto  in quelle comunità etnico - antropologiche. Dico “soprattutto” perché tra queste comunità c’è San Marzano. Dobbiamo, tuttavia, considerare che tutti questi elementi antropologici insistono e resistono nella modernità soltanto attraverso la visione dell’etnia, dell’ethnos.  Ogni comunità possiede una dimensione dell’ethnos e del linguaggio, quindi demo. Ecco, allora, la caratteristica importante del “concetto demoetnoantropologico”. Legato a questa realtà ritengo che abbia una sua chiave di lettura importante per i popoli,  per le civiltà, per le comunità. Una etnie per i falò.

 

Pierfranco Bruni, Italianista e Responsabile Progetto Etnie del Mibact
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