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Il miele allegorico della poesia, di Efisio Cadoni

Una lettura critica al Gremio di Roma "Di allegòrico miele – Rapsodíe sarde" di Ugo Magnanti

05/04/2017, 10:36 | Attualità
Antonio M.Masia presidente del Gremio introduce l'evento

Torno a Roma per la terza volta in diciassette anni. Ho incominciato a conóscere questo nostro terzo Millennio nell’Urbe come volontario nelle attività della Chiesa per il Giubileo, come accompagnatore, come guida nelle Sale-Museo delle Scuderíe papali. Mi trattenni per un mese nella Città del Mondo e incontrai a casa sua Giuliano Manacorda, uno dei piú grandi stòrici contemporànei della Letteratura italiana. Era il mio primo viaggio di questo sècolo e di questo Millennio per la POESÍA. Il secondo viaggio avvenne nel 2006, grazie a una grande artista e stòrica dell’Arte, Cristina Crespo, che mi ospitò per una trasmissione televisiva sull’Arte naïf (Rai New : Chi ha paúra di Monna Lisa? di Orlandini e Sangermano). Fui intervistato e ripreso mentre dipingevo una mia donna tra le “rovine” di un’antica Roma, “Pietra tra le pietre”, e lessi per Rai Radio 1 – Habitat di Roberto Pipa anche una poesía dal mio “Abbecedario della cuoca amorosa”. Anche allora visitai Giuliano Manacorda. Un altro richiamo della Poesía. Questo è il terzo. Sono qui per la Poesía e, in particolare, per la poesía di Ugo Magnanti; e sono òspite di un altro poeta Antonio María Masía, che non vedevo dal 1989 – allora autore di un volume di versi di memorie e grande sentimento e “mesti sorrisi” per chi conosce “la fine precoce dei fiori” (I silenzi di pietra, Dominioni Ed., del dicembre 1988) – e òspite del Gremio dei Sardi di Roma.

   Il libro che ho davanti è un libro speciale, perché, appunto è un libro di poesía. Non perché sia speciale rispetto a tutti gli altri libri di poesía, ma proprio perché è un libro di poesía. E qualsíasi libro di poesíe non è un libro qualsíasi: La contraddizione non c’è. Il libro di poesía, infatti, è un libro speciale, poiché si differenzia da qualsíasi altro libro di Scienze, di Matemàtica, di Geografía, di Storia, di Chímica, di Física, di Filosofía, di Narrativa anche quando, come nel caso della Narrativa, possiamo incontrarvi la poesía. Ma quella poesía (come ci càpita di lèggere pàgine di poesía nella lunga prosa di Manzoni o, per restare in questo tempo, nei racconti o nei romanzi di Antonio Puddu, pàgine che talvolta tèndono alla musicalità) è solo sentimento e passione, poesía in senso lato, legata a una concezione romàntica. Non è poesía della parola poètica, come questo. Non è un libro qualsíasi, questo; e la contraddizione è solo apparente. È un libro in cui la parola ha un valore assoluto, proprio perché è “costruito” con parole poètiche.
   Benedetto Croce definisce le parole della poesía “parole che hanno il senso originario di formatrici e operatrici. La parola della poesía scolpisce súbito “l’idea” che diviene immediatamente e assolutamente “immàgine” ed è dunque “formatrice”. È “operatrice” perché òpera, nel testo, sí da produrre sensazioni, emozioni, stímoli, intuizioni, profondi pensieri, attraverso i suoni sintatticamente espressi. Ecco perché il poeta è soprattutto un artista, nonostante il pensiero di Francesco De Sanctis secondo cui l’artista e il poeta sono totalmente distinti. Chi non ricorda il suo pensiero su Dante da lui definito “piú poeta che artista” o su Petrarca “piú artista che poeta”. La poesía è l’arte della parola. E qui, in questo libro, mi sembra d’aver scoperto un grande artista della parola perché riesce a trasméttere nei lettori quella che Croce chiama “l’ànima dell’espressione poètica”, ossía il RITMO che in sé contiene música e pittura, scultura e architettura e anche ciò che, personalmente, un po’ scherzàndoci sopra, ho chiamato “poesía da mangiare e da bere”.
   E non siamo lontani dal concetto crociano della “poesía che, dimenticati il suono, il colore, il sapore, l’odore, il rilievo, è tutte queste cose insieme e nessuna di esse in particolare”
  Ecco, dunque, questo libro “speciale”, perché libro di poesía, è anche un libro “speciale” rispetto ad altri libri di poesía perché è il libro che parla di un miele “speciale”, astratto, non ordinariamente inteso, ossía di un “miele allegòrico”. Il suo títolo è infatti “Di allegòrico miele”, con  la sua continuazione, che chiàmano “sottotítolo”, anche se in realtà lo affianca, “rapsodíe sarde”.
   Il miele, ci informa súbito il poeta, è l’argomento del libro, però è un miele “allegorico”. La sua dolcezza è solo astratta, appunto, ma ugualmente capace di farsi “sentire”, “odorare”, “guardare” e cosí via. Il miele allegòrico è “dolcezza” intesa in tutto il suo profondo significato. Tutti sappiamo che l’allegoría è una figura retòrica, lo strumento caro ai poeti. Come in questo caso, il poeta scrive di arnie e di miele ma vuol significare bene e bellezza, serenità e armonía, amore e piacevolezza, concordia e pace, gioia e felicità e tutto ciò che è necessario per raggiúngerla, questa “dolcezza” che per Ugo Magnanti è un “viaggio in una terra edènica”, nella nostra terra di Sardegna.
  

Il libro contiene i versi delle sue rapsodíe che, come scopriremo nella lettura, sono sèdici.
   Le sue poesíe sono state da lui definite “rapsodíe”, un bel nome che índica che esse sono una sorta di lírica corale che, per lui, è anche singolare o monòdica insieme. La rapsodía è quella forma di poesía che è propria dei cantatori giròvaghi, come il cantore d’Ulisse, che cucívano l’una con l’altra storie di pòpoli e di eroi. Ugo Magnanti ha cucito, dentro ciascuna delle sue poesíe – con un filo conduttore che è il viaggio “lento” di cui scrive – le proprie emozioni, i pròpri pensieri, le sue scoperte, la raggiunta sapienza di esperienza e passione, indirizzando, dedicàndo le sue rapsodíe ai Sardi, al pòpolo dei Sardi, ma, come ben specífica, ai Sardi líberi, quelli che mai piú saranno considerati “venales” come eran chiamati da alcuni “stòrici” latini, e dallo stesso Cicerone, sí, proprio “schiavi da vèndere e quindi da comprare”. Rapsodía qui ha il significato di poesía musicale, sonata e cantata, parlata, recitata, urlata a voce alta, bisbigliata, poesía che si spiega con tutte le sue pieghe che vengon fuori dell’ombra che le segue, e tuttavía  mantèngono sempre il segreto del loro mistero.

   Ha fatto esperienza nell’ísola, perché ha inventato il viaggio in bicicletta che, in Sardegna, ha nominato “Bici nuràgica” recando al suo fianco tanti bravi artisti come lui, poeti, cantanti, musicisti, registi, attori, músici, musicanti e tanti ha invitato a farne parte. Io, fra questi, per quattro anni, se non sbaglio, sono stato con loro poeta recitante o, come si diceva una volta, cantambanco occasionale. E mi sono divertito molto. Ecco perché le poesíe di questo poemetto son chiamate rapsodíe, Perché lui vuol èssere un rapsodo. Anche rapsodo, poeta viaggiatore nel paradiso sardo di verdi eden e di deserti, di sabbie e di rocce, di altezze e di profondità, un viaggio di questa vita e fors’anche di quella morte, che è sempre di là ad aspettarci, per darci, forse, un’altra vita migliore di conoscenza e di sapienza, di emozioni, di sentimenti, d’amore.

   Sèdici rapsodíe. Mi chiedo, ci chiediamo. È uno stratagemma dell’autore che c’invita a pensare, oltre che a sentire, cioè a filosofare sul concetto di número? O è soltanto una scelta casuale che non ha un preciso significato. Il número sèdici. Certo non è. Potrebbe èssere un’affermazione nel senso della bellezza: un “sí” alla bellezza, alla dolcezza, che vien diritto all’ànima, il “sí” di una lingua d’olímpico Apollo e di Core sotterrànea, di una lingua celeste ed ínfera, misteriosa come un gergo sconosciuto ai piú, il “sí” di una lingua zerga; o è un sèdici di saggezza (i sèdici savi della Venezia del XVI sècolo) o il sèdici che corrisponde alle misure del campo di giuoco del calcio, della zona di rigore di un morto giòvane, oppure…. Ecco. Qui, in questo libro, la poesía è anche un’operazione numèrica oltre che letterale, ossía una càbala, un’espressione mistèrica che il poeta svolge con le due parole letterarie raffinate e di oscura impronta.

   Io ho letto il suo libro e come lettore di libri di poesía l’ho letto anche dall’última alla prima “rapsodía”. Sono partito dal punto in cui il poeta esploratore bicinuràgico parte dall’ísola, per arrivare, poi, alla prima rapsodía, cioè nel punto in cui lui, il poeta, arriva nell’ísola, là dove, nella sua solitúdine di viaggiatore e di poeta cerca l’aiuto di una ispiratrice che lo accompagni nel suo percorso di dolcezza, dell’appagamento estètico e spirituale. Lí, alla sua partenza, cerca di interpretare il “presagio” delle bandiere dei luoghi intorno al porto, il presagio del porto. Ma sembra doverlo rifiutare. La sua volontà gl’impedisce di vedere davanti a sé un futuro non desiderato ed egli lo allontana da sé, perché in lui resta la speranza di non andar piú via dall’ísola. Allontana il presagio in un futuro sempre piú lontano: e la sua partenza sarà solo física. Spiritualmente è sempre nell’ísola perché lui è lí dappertutto: ed è monte e foresta, laguna e miniera, cava e precipizio, cielo e mare, ponte e sabbia; egli è in incessante metamòrfosi, dualità, molteplicità. È il nuraghe e la pietra, l’àlbero e la foglia, sé stesso e l’altro e il pòpolo sardo, quello di questi tempi, e il pòpolo dei millènni, di quelli trascorsi e dei millènni avvenire.

   In questo poemetto della speranza l’arrivo e la partenza si fòndono insieme. L’arrivo è la partenza, ma la partenza è l’arrivo. E ancora viceversa. È un cerchio senza fine, un uroboro, un serpente che non c’è perché nell’ísola nostra ci sono soltanto bonarie bisce; è una biscia del Tirso o una biscia di Leni, del fiume della mia Villacidro che s’attenaglia con la sua bocca alla propria coda. Simboleggia il perpetuarsi e rinnovarsi della vita che si collega con la morte e di questa con la vita, la partenza con l’arrivo, come ho detto, e viceversa. Il viaggio non è solo una “vacanza” o solo un viaggio di conoscenza. È un viaggio di sapienza con cui il poeta cerca, in un certo senso, sé stesso, il suo èssere o, meglio, il suo “èsserci”, nell’ísola che scopre di volta in volta paradisíaca, per stare insieme con le cose di quella terra e con la gente di quella terra.

È un po’ il pensiero di Heidegger in cui, non so quanto consapevolmente, il poeta Ugo Magnanti pènetra con i suoi versi per esprímere il suo concetto di “vívere tra le cose dell’ísola che ama sempre di piú, di momento in momento, scoprèndola in una sua condizione “esistentiva”, per usare un attributo caro al filòsofo, ed esistenziale, astrattamente, per uscire dalla concretezza del suo quotidiano, ponèndosi, rispetto agli altri e a tutto ciò che è intorno a lui, in maniera trascendente, per poter star bene con tutti e con tutto e riuscire a far sí che ogni persona e ogni cosa possa star bene con lui. È la sua visione di poeta che s’esprime con parole di poeta
   Forse è già tutto annunciato fin dalla copertina de libro: nell’ambra, nel giallo miele in cui si staglia l’immàgine di una “Danza del fuoco” dell’artista Stefania Sergi, immàgine di un rosso fuoco che avvampa sopra un fondo melícromo, inquadrata nella pàgina dove il títolo e il sottotítolo campèggiano, macchiati di rosso che sbava dalle léttere, lasciando in basso l’altra scritta dell’Editrice Fusibilia Libri. Sembra avvertirci che la danza delle fiamme dell’inverno è necessaria per giúngere al risveglio dell’estate, nell’interpretazione gràfico-pittòrica dei versi di Ugo Magnanti. Mi ricorda un mio dipinto degli anni Novanta: una Danza della pioggia estiva sulle pietre per il ritorno dell’inverno, con quella catena femminile danzante che mi riporta agli occchi l’enorme tela di Matisse nella sua musicale circolarità sospesa, di qua dal cocente fuoco.
  

Le parole del libro hanno il loro segreto, il loro mistero. E il libro accosta al mistero formale della parola, al suo suono, alla sua immàgine fònica, ai suoi versi, anche la  sua esplicazione diretta, direi, la personale esegesi di Ugo che accompagna le sèdici rapsodíe, oltre alle brevi prose introduttive, anch’esse mistèriche e sibilline, oscure. Ma la sua spiegazione è davvero un’illuminazione, una guida, come ad osservare le tre règole di Ermògene di Tarso: naturalezza, semplicità, acutezza, offrendo al lettore informazioni precise per inquadrare il momento ispirativo in un preciso “ambiente poètico”, cose che certamente èsulano dai brívidi delle emozioni, della commozione del testo poètico, ma ne perméttono una lettura narrativa e, come ho già detto, una interpretazione, come dire, ad usum delphini, ma ampliativa, di completamento che il poeta ha ritenuto opportuno dover inserire come annotazione conclusiva.
   Ma non possiamo dimenticare che questo speciale libro è un libro di poesía, ossía è davvero una costruzione di parole che suònano armonicamente con le loro immàgini, con i loro colori, con i loro profumi, con il loro calore, con il loro spessore, con il loro sapore che dèstano sensazioni e àprono la mente ai pensieri, gènerano emozioni e sentimenti, pènetrano dentro l’ànima e ci dànno il piacere, la gioia propria dell’Arte, che non ha bisogno d’èssere razionalizzata, poiché sarebbe proprio contro la sua stessa natura. La poesía ha in sé la sua bellezza che sa trasméttere al lettore, all’ascoltatore che la sente, perché la bellezza è la sua sostanza. E la bellezza non si può spiegare. La bellezza è quell’essenziale quid della Poesía, ripèto, quel ritmo universale che lascia dentro di noi la pace, la serenità, la gioia, il godimento che solo l’Arte, la Poesía sa comunicare, nel significato piú proprio del verbo, sa dare in comunione di spírito a tutti noi che riusciamo a sentirla.

   “Di allegorico miele”, per conclúdere, è una confessione, un rivelare del poeta la propria intimità, il suo profondo “io” che ha bisogno della terra del suo destino che gli ha fatto conóscere la grandezza di un pòpolo (cosí mi spiego ancor piú le sue rapsodíe) che non è il pòpolo del suo viaggio concreto ma, come ho già accennato, il pòpolo dei millènni trascorsi e fors’anche di quelli che verranno, se verranno, in “altra terra e sotto nuovi cieli”, anche se ogni sua rapsodía ha in sé la voce di una trenodía, di una lamentazione corale espressa in maniera singolare, individuale, come un’elegía che, pur nella sua cantata e musicata malinconía, riesce a superare la tristezza di una partenza, generando nel lettore, come ho già detto, quella bellezza della speranza e della felicità che non ci lascerà mai.
 

Efisio Cadoni
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